È attraverso il volto di Maria Mercedes Coroy che lo sguardo di Jayro Bustamante osserva da vicino la quotidianità rituale della terra dominata dal vulcano Pacaya; senza cedere alla scorciatoia forzata di un certo realismo magico, documenta la profonda comunione con la natura delle antiche tradizioni Maya, avvicinandosi senza paura al ciclo di macellazione del maiale e confondendo senza soluzione di continuità accudimento e sacrificio in quella relazione ancestrale tra vita e morte che separa nettamente la piccola comunità rurale dallo sfruttamento che il governo guatemalteco ha esercitato sui nativi sopravvissuti, isolandoli culturalmente e linguisticamente.
È un mondo a parte, la cui logica è quella del gesto e del senso cultuale che interpreta tutta la realtà circostante anche a partire dalla sua ambivalenza.
Il vulcano é infatti evocato più volte come presenza distruttiva e allo stesso tempo importante per la conservazione della comunità stessa; inquadrato quasi sempre sullo sfondo in una posizione di dominio rispetto ai corpi e alla terra, assume il significato di una forza da placare ma anche quella di un filtro protettivo che separa la coesione dei nativi dal mondo civilizzato, una cerniera oltre la quale ci sono le lusinghe e le insidie della città.
Ignacio, promesso sposo della giovane Maria, è un ponte tra i due mondi, le ambizioni che coltiva sono quelle di superare il confine con il Messico per raggiungere gli Stati Uniti e dedicarsi ad affari più proficui, ma il suo repellente per disinfestare la terra dai serpenti che minacciano gli animali necessari al sostentamento, è un prodotto acquistato in America senza alcun effetto sulle insidie della fauna, un elemento artificiale che non può contrastare nè risolvere il complesso rapporto della comunità con le forze della natura.
Bustamante descrive questa realtà autoctona con la forza evocativa degli elementi e l’incedere della prassi ritualistica, tanto da sovrapporre il sacrificio degli animali a quello di Maria in una relazione distorta e sbilanciata, dove ai ritmi della terra si sostituiscono progressivamente quelli perversi del profitto e del potere maschile.
L’opera prima di Jayro Bustamante ha più di un punto di contatto con Las niñas Quispe di Sebastián Sepúlveda, ma a differenza del film diretto dal regista cileno, non si lascia sedurre dall’ermetismo dei simboli tradizionali, seguendo un andamento processionale e avvicinandosi in modo forse più istintivo al corpo-a-corpo tra natura e individui; il punto di contatto più forte tra i due film risiede nella descrizione di una dimensione matriarcale intesa come axis mundi, forza generatrice ancora in grado di dialogare con la natura e di preservare le radici della comunità, rispetto alla visione maschile, punto di vista distruttivo e deviante.
Ixcanul ha quindi la forza rituale del gesto rispetto all’astrazione del simbolo, quello di Bustamante è un cinema primordiale, che non ha paura di sporcarsi con il sangue e con la terra, vicino ai corpi e ai volti e totalmente immerso nel paesaggio, possiede la forza istintiva di una commuovente esperienza ancestrale.