giovedì, Novembre 21, 2024

The Valley di Ghassan Salhab – Middle East Now 6: la recensione

L’immagine bruciata di una rosa, il nero improvviso e uno schianto di metallo fuori campo. Un serpente spezzato in due sull’asfalto e il deserto roccioso che circonda una strada in mezzo al niente, dal ciglio si fa avanti un uomo ferito, cammina con difficoltà mentre la camera lo segue con quella prossimità tattile che sovrappone l’inesorabilità del tempo ad una dimensione visiva quasi allucinatoria. Quando raggiungerà due individui alle prese con una macchina in panne, mentre le donne aspettano ai bordi, l’uomo non riuscirà a dare informazioni sul suo stato e sulla sua identità, perchè non ne ha più memoria.

Comincia così l’ultimo film di Ghassan Salhab, regista Libanese nato in Senegal la cui filmografia, sin dai primi cortometraggi realizzati all’inizio degli anni ’90, è attraversata da un’affascinante riflessione antropologica che mette in relazione le radici culturali di un paese con la progressiva derealizzazione delle identità che ne costituiscono la Storia. Il medioriente di Salhab è una terra fantasma, completamente svuotata e percorsa da figure che ricordano il passaggio di quell’umanità in transito improvvisamente comparsa dal niente nel cinema di Sharunas Bartas e per certi versi anche in quello del primo cinema acusmatico di Bence Fliegauf. Fin da Beyrouth fantôme il mondo di Ghassan Salhab è fatto di sguardi indirizzati verso il vuoto, di gesti che non hanno un destinatario, di città lentamente popolate da creature marginali che abitano il confine tra la vita e la morte, mentre la guerra si spalanca sull’abisso e fa da sfondo acustico, suono persistente della minaccia.

Come in Le dernier homme e nel precedente The Mountain, la tensione è quella di un noir metafisico che conduce i personaggi verso un punto cieco, un isolazionismo survivalista che è allo stesso tempo resistenza ma anche ipnosi autoinflitta. La piccola comunità che soccorre l’uomo ferito si nasconde in un’area post-industriale ai margini con il deserto, mandando avanti un’attività clandestina legata alla produzione di droga, una prassi che Salhab filma come se fosse il piccolo artigianato di un gruppo che sopravvive al disfacimento politico e identitario della propria terra, non è un caso che si soffermi sulle conversazioni dedicate al cibo, sulla preparazione della cena, dilatando il tempo all’interno di uno spazio essenziale, fatto di metallo e vetro e con le incrostazioni del tempo che invadono pareti, finestre e oggetti come se fosse l’azione di un’antimateria. In questo senso The Valley, più di altri film del regista libanese, diventa un’anti-elegia espressionista, uno strano film di fantascienza sugli effetti dell’entropia.

Diviso in tre parti, The Valley si svolge all’interno di questo spazio isolato, nel tentativo del piccolo gruppo di sollecitare la memoria dello straniero accolto, una piccola maieutica che passa attraverso il cibo, la scrittura e la reminiscenza di una canzone tradizionale, un canto d’amore che affiora diventando occasione di scambio con una delle donne della casa; è una sequenza che chiarisce quanto l’amnesia raccontata da Salhab sia una condizione collettiva, uno stato di sonnambulismo che elimina le ragioni dell’attesa per mostrare l’attesa stessa.

Una delle due donne, poco prima che l’esplosione di un conflitto globale concretizzi le paure interiori nella minaccia di un suono che trasfigurerà il paesaggio, danza ipnoticamente sulle note di Exercise one dei Joy Division mentre Selhab la inquadra da dietro la finestra, come fosse chiusa in un acquario; è l’unico contributo occidentale insieme alla techno esistenzialista di Silent Servant, confuso in una colonna sonora che passa in rassegna brani underground della cultura Rai anni ’70 e gli esperimenti sulla musica di Luigi Nono fatti dal compositore georgiano Giya Kancheli, scelte che si muovono su quella linea di confine tra identità e apocalisse e che elaborano una dolente estetica della scomparsa: “When you’re looking at life, In a strange new room, Maybe drowning soon, Is this the start of it all?

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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