“Güney era un guerriero. Ha vissuto la sua breve vita con intensità, con ardore e passione. I suoi film sono pieni di passione. E questo ha ispirato molti, soprattutto me. Aveva una passione senza compromessi: una forza straordinaria. E’ stato un maestro del cinema realista. Era stato lui stesso ispirato dai neo realisti italiani. Penso per esempio ai suoi primi lavori, Umut, speranza. Ti viene in mente Ladri di biciclette, di Vittorio De Sica. Ma anche Accattone di Pier Paolo Pasolini. Il cinema turco di oggi ha in sè questo realismo secco e asciutto, la capacità di dire molte cose con poche scene.” (Fatih Akin)
Questa testimonianza di Fatih Akin, regista turco fra i pochi noti alle platee internazionali, è importante e giusto riconoscimento del ruolo centrale che Yılmaz Güney occupa fra i grandi del cinema, non solo in Turchia. La sua vita segnata da esperienze estreme come carcere, evasione, esilio, rende impossibile scindere l’uomo dal suo cinema, divenuto per lui linguaggio armato con cui vivere oltre la morte e colpire il nemico, dovunque continui ad annidarsi. Dopo anni di prigione e sceneggiature scritte in cella e affidate ad altri, Guney torna a dirigere in libertà per l’ultima volta, e lo fa parlando di un’esperienza vissuta in prima persona.
Duvar (La rivolta) diventa così l’ultimo tributo di una vita spesa per la libertà del suo popolo, e forse la più straziante per la materia grezza che è messa in scena, con detenuti ragazzi, alcuni poco più che bambini, su cui si abbattono vessazioni di un sadismo che neppure la fantasia più sfrenata immaginerebbe. La rivolta di cui parla in Duvar, girato in Francia poco prima di morire in esilio nell’84, è quella del carcere turco di Ankara nel ’76, una delle tante registrate da un regime carcerario dei più duri e meno conosciuti, nonostante il cinema continui a denunciarne la tragica portata (ricordiamo, fra i più recenti, Mold di Ali Aydin del 2012, presentato a Venezia 69).
Al tempo lo stesso Güney era detenuto ed è suo lo sguardo impietrito che segue la cronaca miserabile di un mondo di violenza, un percorso dell’orrore che non fa sconti a nessuno, mentre la pietà guarda attonita sfilare davanti a sè un campionario d’Inferno. Uomini e donne, vecchi e bambini, sani e malati, vivono e muoiono in uno scenario che si fa fatica a considerare reale, ma la cruda essenzialità delle scene e la verità di facce prese dalla strada, molte reduci da esperienze autentiche, ci convince a credere. Il muro, Le mur del titolo francese, è quello ripreso dall’alto che divide le tre sezioni del carcere: quella maschile, quella femminile e quella minorile.
Assistiamo impotenti ad un pezzo di vita dietro le sbarre, cronaca reale, durissima, fatta di ispezioni e botte, abusi sessuali delle guardie e lavori forzati, tutto perpetrato nell’indifferenza di uno Stato che ha rinunciato a chiamarsi Stato di diritto. La rivolta esplode alla morte di un ragazzino, ucciso durante un tentativo di fuga, ma è solo la breve fiammata che lascia altre macerie.
“Per noi non esiste la vita da nessuna parte” dice Ziya, uno del gruppo. Per lui evadere qualche giorno, fuggendo in un mondo ostile anche fuori dal carcere, è stato scoprire l’avvelenamento dell’unico essere vivente che gli voleva bene, una cagna. La cattura successiva porterà altre torture e, soprattutto, la rinuncia a sognare. La morte è presenza costante, evocata dal realismo crudo di riprese disadorne che compongono un affresco di lancinante compostezza, anche quando la tensione si fa insopportabile. Il primo piano di un parto in cella con mezzi di fortuna, il sangue delle ferite, i colpi dei bastoni sulle piante dei piedi, lo scatenarsi della rivolta negli ultimi dieci minuti del film, e poi il trasferimento ad altro carcere, quel sogno coltivato come unica possibilità di salvezza. E quel che si scopre una volta approdati ad altro lager.
Sono quadri di una descensio ad inferos che tuttavia conserva intatto un alone di sacralità, quella che emana da quei corpi martoriati eppure ancora capaci di parole, sguardi e sorrisi. Quei giovani diventano così protagonisti di alcune delle sequenze più amaramente sovversive del cinema contemporaneo, neo-realismo plasmato su un fitto tessuto di corrispondenze che sono poesia visiva interamente concentrata sui grandi temi della vita, della morte, della violenza, dell’innocenza violata e della privazione. Linguaggio scosceso e di collisione, quello di Guney è sguardo cinematografico allo stato puro, nato per generazione spontanea dalla materia informe della vita e di questa specchio e testimonianza. Quei guanti bianchi infilati con sadica lentezza dai secondini nell’ultima scena, la gratuita violenza del pestaggio di benvenuto nel nuovo carcere, i volti tumefatti della ripresa finale, di fronte e di profilo, per le foto segnaletiche, scandiscono le note silenziose di un cammino nel buio, dietro il muro, alla ricerca disperata di una luce.
E, sempre, l’epitaffio di Guney prima di chiudere: “Questo film è ispirato a fatti reali. Tra il sangue e le lacrime, dentro la tenebra del muro, cercarono la luce. Dedico a loro questo film”