Esiste una strada “tridimensionale” per il cinema d’autore? Quali sono gli spazi che l’autorialità può conquistare nella nuova frontiera del cinema digitale? A queste domande tenta di rispondere 3X3D, film composto da tre cortometraggi di Jean-Luc Godard, Peter Greenaway e Edgar Pêra, realizzato per rendere omaggio alla città portoghese di Guimarães, Capitale Europea della Cultura nel 2012.
Presentato fuori concorso al festival di Cannes e riproposto in anteprima nazionale ad Europacinema, alla presenza di Greenaway, 3X3D è soprattutto un film che parla di cinema, della sua evoluzione artistica, di come l’immagine nel corso del tempo ha interagito con lo spettatore e le sue emozioni. I tre episodi sono altrettanti trattati sull’immagine-cinema e sulle prospettive nel dialogo tra la settima arte e la realtà tridimensionale: in Just in time Peter Greenaway esplora lo spazio in lunghi piani sequenza e con avvolgenti movimenti di macchina, per esprimere il suo concetto sperimentale di immagine sospesa tra cinema e videoarte; lo spazio, indagato attraverso un unico punto di vista, diventa performativo e ipertestuale, dando l’idea (illusoria) allo spettatore di poter scegliere il percorso della visione; Cinesapiens di Pêra è una riflessione sul ruolo della spettatore all’interno dello spettacolo filmico, sulla capacità delle immagini di permeare e condizionare l’immedesimazione e la percezione fruitiva, in una chiave onirica che riecheggia David Lynch e certe visioni perturbanti del cinema espressionistico. The three disaster del maestro Godard indaga infine sul testo cinematografico e recupera le immagini della storia del cinema, dal bianco e nero ai primi anni del colore, affermando nel finale il grande inganno del cinema 3D e la sua impossibilità di rappresentare l’istanza realistica.
Il filo conduttore del film è lo sperimentalismo dei tre registi che sembrano divertirsi a scomporre la materia dentro una tridimensionalità che disturba la visione, la rende irreale e priva di coordinate spazio-temporali. Niente è nitido e la convenzionale pretesa di immedesimazione viene negata per lasciare spazio ad un flusso di immagini che segna il distacco da ogni pretesa di realismo. La visione stereoscopica non è illusoria, tende piuttosto all’illusionismo, alla ricerca di un linguaggio nuovo che ha poco del cinema tradizionale e si lega piuttosto ad altre forme d’arte più avanguardiste. Come dire, sperimentare con il 3D si può, ma non all’interno del cinema narrativo.
E se alla fine della proiezione il giudizio sulla possibilità di un cinema autoriale in 3D resta sospeso, a fugare ogni dubbio ci pensano le parole di Peter Greenaway: “Il cinema è morto nel momento esatto in cui hanno inventato il telecomando nelle nostre case. Il 3D è solo un tentativo dei produttori di far sopravvivere la sala cinematografica, tutti i registi che si sono confrontati con la tridimensionalità hanno fallito, da James Cameron con Avatar a Wim Wenders con il documentario Pina. La fruizione con gli occhiali in 3D è di per sé limitante perché in realtà il cinema è un’arte in 2D, e il nostro film dimostra come attraverso la tridimensionalità si possa cercare un nuovo linguaggio sperimentale, ma non un nuovo modo di fare cinema”.