Tratto da un romanzo pulp di Edward Bunker scritto nella seconda metà degli anni novanta, quando lo scrittore di Hollywood aveva già interpretato la parte di Mr. Blue ne “Le Iene” di Tarantino, “Dog Eat Dog” è una feroce resa dei conti per Paul Schrader dopo l’esperienza tutta da dimenticare fatta con Dying of the Light, il film uscito nel 2014, interpretato da Nicolas Cage, letteralmente tolto dalle mani del regista americano e fatto rimontare dai suoi produttori.
Prodotto a budget zero e con una parte del cachet per Willem Dafoe ricavata dall’autofinanziamento di Cage, condivide con lo splendido The Canyons la precarietà degli ambienti e la descrizione di un’America sordida e terminale.
A partire da quell’occhio tatuato sotto il mento di Mad Dog (Willem Dafoe), il film è un delirante viaggio tra formati, innesti digitali e saturazioni colorimetriche molto più selvagge e deraglianti di quelle ideate per Witch Hunt, uno dei titoli più sconosciuti e sperimentali di Schrader.
Troy (Nicolas Cage), Mad Dog (Willem Dafoe) e Diesel (Christopher Matthew Cook) sono tre balordi con un passato comune tra crimine e prigione, la loro percezione è quasi sempre alterata dalla droga, tanto da consentire a Schrader di entrare e uscire continuamente dai cliché del crime movie quasi sempre per eccesso e senza la necessità di trovare una relazione tra colore e psicologia dei personaggi. Il rosa shocking della casa di Mad Dog, la successiva esplosione di sangue, il messaggio destinato alla figliastra appena uccisa, dove l’amica si lamenta per la ricetta dei Cupcakes, Dafoe che fa le boccacce davanti ad uno specchio deformante.
Sono segni decifrati che puntano al contrario verso l’indecifrabilità.
La differenza tra mondo “dentro” e mondo “fuori” descritta dai romanzi di Bunker come la cronica impossibilità di adattamento e integrazione, assume nel film di Paul Schrader l’estensione di una prigione a cielo aperto, dove la relazione funzionale con gli oggetti, le persone, le azioni, è destinata a cortocircuitare all’infinito attraverso un meccanismo quasi slapstick innescato da una furiosa forza demente.
Ed è proprio in questa estrema attenzione alla superficie, nel cambio improvviso di formati e stili, in quell’accozzaglia di viraggi presi di peso dalla cultura visiva dell’MTV anni 80, con gli inserti in bianconero ex abrupto, ma anche nella cinefilia bogartiana di Cage riferita con dolente profondità anche al cinema di Godard, che emerge uno stralcio di umanità disperata.
La conversazione di Diesel con una ragazza sulla morte di Elliott Smith, la sua stessa impossibilità a trattenere la violenza, come sostituzione di un gesto naturale, che dissolve, letteralmente, il mondo che gli sta intorno, la coazione a ripetere di Troy, dentro il mito del gangster, scheggia cognitiva che proviene dal cinema ma torna direttamente alla morte dello stesso entro i confini dell’industria, con Schrader stesso, nella parte di El Greco, che non riesce a bilanciare le esigenze dei suoi finanziatori con le azioni sgangherate del terzetto.
Dog eat dog è un piccolo grande film su un brandello di umanità a cui è impedito riconciliarsi, è un piccolo grande film sull’impossibilità di farne anche solamente uno fuori dai parametri dell’industria.