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Drive-in Saturday. La post apocalisse di Bowie e quella delle sale cinematografiche di domani

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Quando David Bowie presenta “Drive-in Saturday” al Public Hall di Cleveland nel 1972, descrive questo scenario al suo pubblico: “Racconto un futuro in cui le persone si sono dimenticate come far l’amore, proprio per questo tornano a guardare i film conservati in questo secolo. Accade dopo una sorta di catastrofe, dove alcuni sono costretti a vivere per strada e altri protetti all’interno di cupole. Insieme cercano di imparare gli uni dagli altri e di rimettere insieme tutti i pezzi”.

Poco prima della retromania innescata da American Graffiti di George Lucas, Bowie offre una prospettiva molto più caustica sull’eredità dei decenni precedenti, raccontando la libertà di quello presente con la costruzione di un bizzarro avvitamento sci-fi. Il suono del futuro è quello di una strana canzone anni cinquanta, riletta attraverso le recentissime suggestioni sonore introdotte dai Roxy Music. In una società ormai dominata dalla paura, il sesso è un ricordo lontano e per imparare di nuovo, si guardano le vecchie immagini promozionali di Mick Jagger, il corpo androgino di Twiggy e i film del decennio.

Non dimenticare di accendere la luce
Non ridere bambina, andrà tutto bene [….]
È un corso accelerato per arrapati
E’ un sabato da Drive-in

Chissà se ce lo ricorderemo come toccarci, come fare l’amore, come scambiarci emozioni con il corpo dopo questo lungo annichilimento dell’anima. L’idea di re-imparare nello spazio circoscritto da un’auto, con protocolli ferrei di distanziamento sociale e probabilmente l’impossibilità di ospitare a bordo la compagna o il compagno per praticare “Heavy petting“, non mi sorride affatto. Tutto nei Drive-In concorreva alla distrazione dallo schermo; erano palestre per un’altra formazione, mentre nei nuovi possibili ancora tutti da immaginare, le caratteristiche sono separazione e dispersione. Una riduzione radicale dell’intensità, come quel mare che nella canzone di Bowie non infuria più, tanta è la paura di esser disintegrati dalle radiazioni che contaminano l’atmosfera. Lo scenario contemporaneo sarebbe molto più vicino a quello di “Drive-in Saturday” che all’immaginario veicolato da Grease oppure dai baracconi a tema.

70, 100, 200 macchine che si spostano in processione per raggiungere una, due, tre location adibite, mentre avevamo appena acquisito maggiore consapevolezza sulla diffusione accelerata del COVID-19 a causa delle polveri sottili. 

Se alla bassa fedeltà che decretò il fallimento dei Drive-In statunitensi per l’emergere di nuove tecnologie audio immersive diffuse in sala, corrispondono nei nuovi spazi, audiofrequenze sintonizzabili dalla propria autoradio oppure cuffie multicanale come quelle adottate dal milanese Bovisa, tutto sembra una parodia scomoda dell’home theatre salottiero. Ha ragione Carlo Verdone quando li definisce “una fesseria” ai microfoni di Un giorno da Pecora: “Il drive-in può essere una soluzione per due luoghi, dove fai rassegne estive, ma non può sostituire il cinema. Sto a casa in poltrona altrimenti, è più comodo. Devo prendere la macchina per andare a vedere il film e guardarlo in auto?

Eppure è bastata solo l’ipotesi per saturare la rete con sponsorizzazioni via google adwords di schermi gonfiabili, adatti per la proiezione da entrambi i lati e promossi da service che operano nel settore.

La museificazione inquietante del passato che Bowie preconizzava, si realizzerebbe in una nuova forma tecno-politica dove il Drive-in celebrerebbe la liturgia della distanza attraverso un luna-park ad accesso controllato. Sarebbe più forte allora la presenza scopica dello schermo, quella aurale delle cuffie hi-tech oppure l’assenza di una mano da toccare o di un gruppo di amici con cui condividere quella vibrazione aptica, di cui ormai Vivian Sobchack parla da diversi anni nel descrivere l’esperienza cinematografica a partire da una prospettiva fenomenologica corporea e incarnata che superi la retorica dell’occhio?

A rendere difficile l’attuazione c’è la dubbia sostenibilità dei progetti, costi elevati per gli esercenti e di conseguenza anche per gli spettatori: un posto auto avrà il prezzo forfettario fissato per il Bovisa di Milano a 20 Euro? Chi potrà permetterselo?

E mentre a Roma la Commissione provinciale di vigilanza sui locali di pubblico spettacolo non riesce a dare un parere perché non esiste un regolamento legato a questo tipo di attività, emergono per tutti i Drive-in le stesse paure che ci hanno chiusi in casa a doppia mandata: quale distanza tra un veicolo e l’altro? Che tipo di concentrazione in una superficie adibita? Quali misure di prevenzione sanitaria dovranno essere adottate per i servizi igienici e per tutti quelli collaterali, come il commercio di bibite e pop-corn?

Un sistema ancora più pachidermico, dove alla leggerezza di un gesto di cui avremo tutti bisogno, si sta sostituendo il peso di una visione securitaria.

Perché pagare per essere infelici?