A fronte dell’ennesima bravata il quindicenne Tomas viene spedito dalla madre a vivere con il fratello Fede, studente fuoricorso all’Università di Città del Messico e incline a trascorrere le giornate vivacchiando e tirando a campare. Grazie alla sua testardaggine Tomas riesce a convincere il fratello e il suo coinquilino Santos ad affrontare un viaggio disperato alla ricerca di Epigmenio Cruz, rockstar misteriosa e affascinante, nonché baluardo degli ultimi ritagli di memoria che i due fratelli conservano del padre scomparso.
Il debutto alla regia di Alonso Ruizpalacios non desta particolare avversione ma il vero problema di cui paga lo scotto è l’autocelebrazione, l’eccesso di auto-consapevolezza. Autocelebrazione che si declina in auto-percezione del soggetto quando un personaggio reitera uno sguardo in macchina o quando la regia demolisce persino la quarta parete, abbattendo il muro rappresentativo tra intra- ed extra-diegesi, facendo dialogare direttamente un personaggio con il videomaker. Eccolo servito, il meta-cinema. Ma l’auto-riflessività è cosa nota da tanto cinema contemporaneo (e letteratura post-moderna) e potrebbe anche avere un senso diversi lustri dopo la sua comparsa, se tesa a un approfondimento del reale tramite la centralità del soggetto percettivo come medium di una creazione, di una posizione o di una strutturazione di senso. Specie se traslata, disarticolata o distorta.
Qui invece l’eccesso di auto-coscienza, travasato a piene mani nei pesonaggi-contenitori (si veda il gesto in cui i protagonisti bloccano improvvisamente il traffico), è una pesante riproposizione di quello che potremmo definire come enunciazione del soggetto, una questione che riguarda molto cinema ancorato alla zavorra della parola, da Allen a Moretti, qui declinato in altra forma. Quello di Ruizpalacios a conti fatti è un situazionismo deliberato e narcisista, Ruizpalacios usa una storia per farci vedere di che pasta è fatta la sua regia, la sua scrittura, la sua formula magica pop e spregiudicata.
E quindi via libera ad un spericolato carosello di virtuosismi tecnici e formalismi retorici, attinti a pieni mani dal bagaglio stilistico della Nouvelle vague o di altre avanguardie cinematografiche. Un autentico tripudio di accelerazioni e ralenti, simbolismi e soggettive, climax e cesure, mdp a mano, piani-sequenza, dissolvenze in nero, lenti deformanti, simmetrie geometriche, uso del sonoro on e off, echi del cinema muto ma soprattutto non uno ma ben due, anzi tre, mc guffin, che quasi auto-denunciano la natura pretestuosa e spudoratamente referenziale dell’intreccio: la donna iniziale che si dà in fuga, l’episodio ricorrente del tiro al bersaglio dall’alto, ma soprattutto il nucleo drammatico della ricerca di Epigmenio Cruz. E se per alcuni di essi, penso ai simbolismi espliciti del passato da dimenticare o rimuovere come per esempio la polvere grattata da sotto i piedi, la scritta don’t look back sulla maglietta, si prende atto della loro coerenza con un impianto ideologico a monte accettandone la gratuità, per tutti gli altri si fa fatica a trovare tanto un effetto di verosimiglianza quanto una funzionalità alla trama, e quindi a collocarli.
La regia massimalista di Ruizpalacios distorce, stordisce, sperimenta, ammicca, affetta, travolge, chiosa, scompagina, accelera, rallenta, cristallizza, ma senza null’altro comunicare se non una grande consapevolezza di sé ed una ricerca del bello e del nuovo che non fa il paio ad un discorso cinematografico più ampio. E la storia nel complesso finisce sempre subordinata alla maestria tecnica.
Pensiamo al monologo dei protagonisti sulla superficialità del cinema natio, quando il regista per tramite dei personaggi condanna la meschina volontà dei suoi colleghi (Inarritu, Cuaron ecc.) di sfruttare il malessere sociale per costruire, attraverso la lente del finto realismo, un discorso cinematografico dal forte impatto drammatico. L’ennesima locuzione assertiva sparata da alto volume e ad altezza d’uomo. Qui il regista contesta il modello filmico in voga nel suo paese, lo accosta con audace scherno alla realtà artificiosa dei reality, e per contrasto motiva e partorisce il suo universo simbolico fatto di istanze spettacolari, rasoiate emotive pure e attitudine al disimpegno e al senso di fuga.
Ma fugge da cosa? Da cosa fugge Ruizpalacios e per osmosi i suoi personaggi? Sballottati qua e la in questo pellegrinaggio senza fine, in un movimento sempre fittizio e mai reale, sempre orizzontale e mai verticale (si veda l’assenza del capitolo Nord o la sparizione dell’ascensore – altro simbolismo greve -), in balia della noia, dell’apatia, dal passato, della mancanza di stimoli, radici, figure paterne. Dall’impegno? Dal senso di appartenenza? Dalle responsabilità?
Una cosa è chiara: Ruizpalacios non vuol farsi carico del reale. Lo sfiora e poi lo respinge. Lo intercetta e poi gli volta le spalle. Evita scientemente l’approfondimento o la riflessione, aborrisce programmaticamente tutto ciò che è traumatico, cupo o allarmante. Indica o semplicemente predispone a delle situazioni spiacevoli o critiche ma non le sviluppa, non le tratteggia, arricchisce o implementa (l’incontro con i teppisti, gli attacchi di panico, la sotto-trama universitaria, la disamina del disagio sociale). All’opposto egli sembra configurare solo due direzioni verso le quali la prospettiva dell’autore sembra muoversi con approccio costruttivo e assertivo: l’ironia e l’empatia. Sono questi gli unici due punti di fuga dei quattro gueros allo deriva, assi cartesiani di un movimento orizzontale che non rimanda mai a un’evoluzione, a una catarsi, ad uno sbocco verso un maggiore grado di introspezione, consapevolezza o realizzazione. Ma al contrario sembrano delineare quell’enfasi dell’eterno presente, del perpetuo rincorrersi e del rifugiarsi nell’assenza, la sospensione o la superficialità delle cose, che è tipica degli anni ruggenti.
I momenti più belli del film non a caso sono quelli in cui i ragazzi scherzano, cazzeggiano, ascoltano la musica di Epigmenio, prendono a calci una lattina o giocano a fare le imitazioni. Ma quando serve fare uno scatto in avanti, un passo verso l’emancipazione sociale (la festa) o la coscienza collettiva (la marcia) i nostri sbiaditi anti-eroi si danno alla fuga e continuano a trastullarsi nel loro interdipendenza emozionale.
E allora chi sono questi quattro disadattati sociali? Sono vittime del sistema o della loro vigliaccheria? Sono prede dell’assenza di mobilità o carnefici del loro stesso immobilismo? Sono agenti della rivoluzione o crumiri della resistenza? Il conflitto tra impegno e disimpegno, tra pubblico e privato, tra Storia e storia, deposto sempre a favore del secondo emisfero, parrebbe polarizzare la scelta sul concorso di colpa tra caratteri e autore che, se da un lato ci fa empatizzare con la loro insicurezza sgangherata e sincera, dall’altro non può non mortificarci per l’arrendevole assenza di una ricerca esistenziale ed estetica.
Disgregazione senza ricostruzione, alterità senza identità, empatia senza presa di coscienza. Ruizpalacios firma un memoir fresco ma trito, generoso ma imperfetto, saturo di senso di nostalgia ma privo del mordente dell’inconscio, simile a una fiaba ma lontano dalla sincerità di una confessione o dalla spregiudicatezza di un trip lisergico e graffiante. Il fotogramma finale rende manifesto la volontà di cristallizzare la fase di una vita, una fase in cui l’aspetto umano si mangia ogni cosa, evidenziandone il senso di spensieratezza e libertà ma senza rimuginare troppo sul tempo e l’attualità. Riuscendoci anche in parte, grazie soprattutto all’impiego di un raffinato paesaggio sonoro, attori freschi e una fotografia nostalgica ma oltremodo abbagliante. Ma il tono di voce urlato, l’apologia del cazzeggio e in generale l’ambizione vacua di un certo cinema d’evasione (e post-moderno, da pronunciare rigorosamente facendo il gesto delle virgolette), non convincono del tutto e ci fanno sperare in una crescita di maturità e autenticità per le future esperienze dell’autore messicano.