Neill Blomkamp torna a Johannesburg e dopo la superficie levigata del discutibilissimo Elysium cerca di recuperare la sporcizia di District 9, ma chissà che a fare la differenza non fosse stata, ai tempi del primo lungometraggio, proprio la produzione di Peter Jackson, perché “Humandroid” è un mostro pop molto più orchestrato di quello che vorrebbe far credere e che in parte ruota intorno all’estetica dei Die Antwoord creando a tratti un cortocircuito interessante tra il cinema del regista sudafricano e l’universo iconico dei boeri, da sempre tritacarne semantico di un vastissimo immaginario “poser” che con altri risultati e intenzioni era esondato nell’ultimo film di Harmony Korine. Rispetto al regista americano, l’operazione di Blomkamp è citazionista come tutti i suoi film e non si lascia andare alla parafilia performativa di Spring Breakers, tanto che il disegno di inventarsi un “mostro” mutante tra la Pinoko di Osamu Tezuka, il “Johnny 5” di John Badham, il noto poliziotto cibernetico di Paul Verhoeven e il Briareos Hecatonchires di Appleseed ha una chiara intenzione industriale non così distante dal concept di Big Hero 6, ma gli serve anche per elaborare lo stesso tipo di linguaggio combinatorio che i Die Antwoord attivano su certa cultura black, un meticciato che contiene, in entrambi i casi, il dialogo complesso tra mercato e sperimentazione, come notava con acume Federico Fragasso nella recensione di Ten$ion, e che tende a definire concettualmente lo spazio apolide della città come una discarica di influenze, riconfigurabili a partire da un’estetica “brutta”, simulacrale e palesemente falsa, come l’orientalismo decostruzionista di Fatima Al Qadiri nel suo splendido e inquietante Asiatisch, che racconta la Plastic city virtuale mentre penetra quella reale.
Blomkamp colloca Yolandi Vi$$er e Ninja in uno scenario desolato e post-urbano che non è nuovo per chi conosce la suburbia fatiscente di Umshini Wan, dove i Die Antwoord diretti da Korine sfogano la loro performatività spastica, trasformando in ossessione delirante il campionario di pose gangsta, le stesse sulle quali insiste Blomkamp e che diventano la storia di formazione di Chappie, la cui cultura di riferimento assume la forma mutante di un concentrato impazzito di scarti residuali, stabilendo così un ponte di contatto con lo Zef dei Die Antwoord, il loro uso dell’afrikaans e dei segni di una sottocultura sincretica; quanto di più distante dalla retorica punk per come ce la ricordiamo, e più vicino ad un processo identitario complesso che include l’espropriazione delle regole di mercato all’interno del mercato stesso.
Non più gli slums di Johannesburg, inquadrati ormai solo dall’alto, ma le zone industriali dismesse ai margini di una città occupata dai colossi finanziari, grattacieli di vetro circondati da un sottosuolo criminale il cui unico scopo è rioccupare la città defunzionalizzata, esattamente come il “rap-rave next level sh*t” dei Die Antwooord, nato a Cape Flats e attrattore di tutte le contraddizioni di Città del Capo, le stesse che Chappie assorbe nella sua fase senziente con la forma mostruosa e polisemica del sudafrica filmato in Fatty Boom Boom.
Blomkamp cerca di fare lo stesso con il cinema di genere, abbassandosi ad un livello “brutto”, interpretando l’immagine digitale come una tavolozza da saturare con ripetuti innesti e rielaborando stimoli e segni esattamente come Chappie quando apprende attraverso i cartoon della Marvel; se c’è un aspetto interessante in Humandroid questo non è tanto nella relazione tra organico e inorganico, giochino di contorno molto più presente in District 9 nell’accezione di un “falso” documentario (come Forgotten Silver) sul cinema della mutazione degli anni ’80, ma nel modo in cui i relitti di una cultura fruita, nella prassi odierna, attraverso le directories di condivisione di massa, contribuiscano a creare un vero e proprio mostro cognitivo che non è più in grado (fortunatamente) di scegliere, mettendo insieme frammenti underground, grandeur mainstream, videogame, i relitti di un cinema che non esiste più, un meltin’ pot che non esclude la violenza come modalità necessaria.
Rispetto a District 9 c’è un controllo maggiore nel costruire un film volutamente brutto, manca la furia parossistica e violenta degli esordi e persino l’immaginario scorretto e di frontiera dei Die Antwoord sembra in parte neutralizzato dai continui “selfie” e “product placement” che il duo introduce per marcare il territorio con una firma visibile, ci sarebbe voluta più sporcizia e un approccio meno apodittico alla John Sayles (punto debole anche di District 9), troppo visibilmente politico e “morale” per esserlo davvero fino in fondo.