John Madden torna a dirigere un cast di vecchie glorie britanniche nel loro ritiro indiano; la mistura tra scenari esotici controllatissimi e la britishness dei suoi ospiti crea ancora una volta quel contrasto tra meraviglia e desideri senili, adattando il romanzo di Deborah Moggach e puntando maggiormente a quei sentimenti di perdita, inutilità, mortalità e rimorso osservati da una prospettiva che del confronto tra culture privilegia la soggettiva fieramente coloniale e razzista.
Poco importa che alle spalle vi sia il fallimento di una vita, la famiglia occidentale ormai a pezzi e lo spettro della morte a ricordare che non c’è più tempo, l’india di Ritorno al Marigold Hotel, tra i colori delle stoffe, l’ospitalità indiana e una festa matrimoniale accordata sui toni della tradizione bollywoodiana, è un’emanazione diretta della middle class inglese, un’isola immaginata ad uso e consumo di una commedia dagli sbiaditi toni shakespeariani dove manca del tutto quel gusto combinatorio di grande forza cinematografica ideato da Steven Knight e Lasse Hallstrom , capace di valorizzare ogni ingranaggio del dispositivo narrativo in una energica fantasia pop.
Anche Madden si serve dei numerosi subplot del racconto corale cercando di cucire tutti gli episodi con quello spleen che mette di fronte le occasioni perdute dell’occidente rispetto alla grande energia vitale della cultura orientale, collocando nella posizione dell’osservatore onniscente il personaggio interpretato da Maggie Smith, con il suo cinismo irriducibile, pronto a vanificare ogni deriva del cuore; è una coscienza critica quella di Muriel che non scalfisce integralmente la costruzione del bozzetto di maniera, semplicemente perché a un certo punto viene assorbita da quella stessa visione paternalistica che osserva il Rajasthan come un mondo magico.
E se i viaggi di Evelyn (Judi Dench) assumono il punto di vista di uno sguardo turistico, non è da meno il teatrino dei sentimenti che mette al centro Madge (Celia Imrie), indecisa tra due contendenti e infine attratta dall’umile autista che ogni volta le chiede da quale parte della rotatoria dirigersi.
Le ambizioni imprenditoriali di Sonny (Dave Patel) diviso tra l’amore per la fidanzata, il rispetto delle tradizioni e il desiderio di farsi assimilare da un franchising statunitense trovano infine conciliazione nel balletto conclusivo, come a mostrare l’unico spazio rappresentativo possibile entro il quale possa esprimersi la cultura indiana osservata dagli ospiti occidentali.
Quello di Madden non è certo uno studio sui contrasti, ma al contrario salda irrimediabilmente una visione sull’altra senza che questa rappresenti un rischio, un trauma, o per lo meno, un cambio di prospettiva.