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The zero theorem di Terry Gilliam: la recensione

Esce in sala a distanza di tre anni l'ultimo, deludente film di Terry Gilliam. La recensione di The zero theorem

Il cinema di Terry Gilliam vive in una difficile terra di mezzo; animato, nei momenti migliori, da uno spazio instabile e costantemente sottoposto a mutazione, si arresta al contrario, quando contempla la costruzione di ingranaggi complessi e belli da vedere. Oggetti caotici, polimorfi e quindi spesso invendibili, i film del regista inglese puntano al congegno, autocompiacendosi, per poi mandarlo a morte distruggendolo; sono enormi macchine celibi, il cui interesse risiede proprio in questa impossibile magniloquenza che crolla d’improvviso come il più articolato dei castelli di carte per una qualsiasi deriva (del tempo, dello spazio) che li tiene in vita.

In The Zero Theorem, a questo proposito, quando Qohan Leth (Chris Waltz) potrà continuare dalla sua abitazione il lavoro di ordinamento del caos matematico a cui è stato assegnato, piloterà un’interfaccia grafica che gli consentirà di incastrare una formula fisico-matematica dietro l’altra in una sorta di scenario tridimensionale alla “tetris”. Tutte le volte che crede di aver trovato una via per costruire l’enorme castello di poligoni digitali, vedrà irrimediabilmente crollare i suoi sforzi per un calcolo errato, dovendo ricominciare da capo.
In questo tentativo disperato, ci è venuto in mente Terry Gilliam che combatte contro il suo stesso cinema, e non solo quello incompiuto, colpito a morte dagli eventi, perchè tutti i suoi film in fondo risentono di questo enorme squilibrio che li rende inutili e allo stesso tempo, vivi e disperatamente visionari.

Ma Se gli ultimi due lungometraggi di Gilliam, Tideland e The Imaginarium of Doctor Parnassus, ci avevano convinto per questa capacità di rimanere appunto in un precario equlibrio, rappresentando un mondo reinventato costantemente a rovescio, in una dimensione più intima e crepuscolare del solito e sopratutto senza soccombere al peso degli orpelli, questo The Zero Theorem è un film, forse volutamente, chiuso, che non riesce a sbarazzarsi dalla sua sostanza frattale.

Le ossessioni ci sono tutte, da Time Bandits, passando ovviamente per Brazil che è il modello più evidente, fino al mondo dietro lo specchio del Dr. Parnassus, ma la varietà si ferma ad una dimensione “creaturale”, con una sarabanda, indubbiamente divertentissima, di personaggi bizzarri e trovate illusionistiche ammassate piú per frequenza che per possibilità della visione.

Nello spazio mentale e abitativo di Qohan Leth entrano ed escono tutte le figure di un universo manipolato dal ‘management’, uomo d’affari interpretato da Matt Damon che sembra una versione più orwelliana del Creatore in doppio petto di Time Bandits.
La quest, è la solita: il senso della vita, l’equilibrio del cosmo, offrire quindi una visione risolutiva del caos.
Animato da un’individualismo ancora più isolazionista del solito, The Zero theorem punta alla reinvenzione dello spazio virtuale a partire dalle potenzialità creative personali di crearsi il proprio universo, un aspetto che attraversa certamente tutto il cinema del regista inglese, basta pensare alla sfiducia nel sistema famigliare che dal solito, seminale Time Bandits porta a Tideland.

In zero theorem tutto è però chiarissimo ed esplicito e allo stesso tempo chiuso in una scatola di produzione del senso autosufficiente; senza più alcuna possibilità di infrangersi, la macchina complessa di Gilliam questa volta funziona perfettamente come un carillon, scaricato il meccanismo a molla, possiamo riporla nel suo astuccio.

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Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.
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