domenica, Dicembre 22, 2024

Un valzer tra gli scaffali di Thomas Stuber: la recensione

Il fascino semplice di film come Un valzer tra gli scaffali (titolo vittima come abitudine di una storpiatura da parte della distribuzione italiana) risiede tutto nell’incrocio di punti di vista e generi. Il film del regista tedesco Thomas Stuber, classe 1981, segue l’esempio di quel cinema europeo contemporaneo che ha fatto dell’indagine sociale la sua vocazione, con un buon numero di declinazioni possibili che forniscono agli autori strumenti cinematograficamente efficaci per radiografare la società dei propri paesi. Una delle lezioni più importanti in questo senso è evidentemente quella di certo cinema d’autore britannico, di cui Ken Loach e Mike Leigh (con le sue sempre puntuali working-class dramedies) sono i nomi di punta, ma vengono in mente anche i ritratti freddi e umanissimi della trilogia proletaria del finlandese Kaurismäki. In questo filone di un cinema “impegnato” eppure così squisitamente cosciente del proprio medium, ovvero così attento a illustrare un quadro del proletariato attraverso narrazioni che passano elegantemente dal dramma alla commedia, si inserisce a pieno titolo l’ultimo lavoro di Stuber, in cui un frammento di periferia tedesca diventa inusuale luogo di fertile romanticismo per un giovane personaggio con un passato difficile, da lasciare alle spalle.

Kaurismäki ci ha raccontato lo sbocciare dell’amore tra un netturbino e una cassiera (Ombre nel paradiso), Stuber si sofferma invece su un ambiente più sereno della gelida Helsinki vista dallo sguardo proletario dei protagonisti, ma quasi altrettanto alienante. È infatti proprio tra gli scaffali di un importante supermercato alla periferia di Lipsia che si consuma la vicenda di Christian e Marion, addetti al muletto di due corsie “alleate”. C’è infatti una ben precisa gerarchia tra i reparti di questo esemplare della grande distribuzione; gli addetti ai surgelati sono “siberiani” e vanno evitati, mentre chi lavora alle bevande, come Christian, deve stare dalla parte del reparto dolci.

Se è vero che in questo gioco viene ironicamente a mancare un po’ il peso di uno sguardo a gerarchie più concrete, nella forma di un reale confronto tra operaio e superiore, l’obiettivo è qui evidentemente un altro e di natura più lieve. Fin dai primi minuti il film avanza con chiarezza la propria dichiarazione d’intenti, annunciando la presenza di un sottotono ironico comunque che non prevarica mai il sostrato di rassegnazione esistenziale che gli impiegati trasmettono attraverso i loro dialoghi.

Stuber con sapienza gira attorno alla denuncia sociale, inquadrando con una certa precisione i suoi operai all’interno di una situazione geograficamente e storicamente complicata. Ecco allora che il peso della caduta del Muro e della riunificazione emergono nelle parole di uno dei personaggi più interessanti, l’ex-camionista Bruno, veterano del reparto bevande che diventa fidata guida del “novellino” Christian all’interno del microcosmo del supermercato.

Un microcosmo che Stuber dimostra di saper descrivere con un’accuratezza che rasenta l’affetto, quasi come se non ci si possa solo innamorare in quel tempio del consumismo quotidiano, ma anche provare un sentimento per quello stesso ambiente. Un improbabile valzer tra quelli scaffali diventa dunque assolutamente plausibile e le pareti del centro commerciale abbracciano le vite di questi operai che, una volta usciti dalla struttura, sembrano vivere la rottura di una parentesi temporale e il brusco ritorno alla realtà. Lontano dalle familiari corsie del supermercato, Marion torna da un marito manesco; lontano da esso, Christian rischia di subire l’influenza di vecchie amicizie e la tentazione dell’alcol; Bruno invece non smette di sognare l’autostrada, che passa in prossimità del supermercato.

L’interno del supermercato diventa intimo palcoscenico in cui raccogliere solidarietà e scambiarsi storie di sofferenza. Tra gli scaffali si scambiano sguardi d’intesa, gesti goliardici e risate amare. A Stuber basta la rappresentazione di questo solo (ma da un punto di vista contemporaneo così significativo) luogo per allestire una struttura narrativa sorprendentemente dinamica e complessa, nella quale si riflettono i drammi privati di una parte di Germania spezzata dalla crisi che forse non siamo abituati a vedere sui nostri schermi.

Persino l’assenza della scintilla di un confronto di classi a questo punto necessario non guasta l’impianto complessivo di un film che è prima di tutto un’inusuale storia d’amore, capace comunque di esprimere, tra gli scaffali e tra le righe, una nota amara, non intavolando ma iniziando il discorso attorno a un disagio sociale che reclama attenzione.

Michele Bellantuono
Michele Bellantuono
Veronese classe '91, laureato in Filologia moderna e studioso di cinema autodidatta, svolge da alcuni anni attività di critica cinematografica per realtà online. Ha un occhio di riguardo per il cinema di genere e dell'estremo oriente

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