“Voglio provocare nausea, repulsione” disse Jean Vigo presentando À propos de Nice, il suo esordio da regista, la sera del 14 giugno 1930 al pubblico del Vieux Colombier di Parigi riunito per la rassegna sul giovane cinema francese (a cura del Groupement des Spectateurs d’Avant-Garde, si proiettavano anche Naissance d’un illustré di Pierre Chenal, Autour de l’argent di Jean Dréville, Histoire de détective di Charles Dekeukeleire, Les Champs-Elysées di Jean Lodz e Kaufman, Nogent, Eldorado du dimanche di Marcel Carné, La nuit électrique di Eugène Deslaw, La zone di George Lacombe). A Vigo restavano quattro anni di vita, ma a soli ventiquattro aveva già capito tutto su cos’è il cinema e su come si fa. Aveva incontrato Boris Kaufmann, fratello minore di Dziga Vertov, al Vieux Colombier e allo Studio des Ursulines, cineclub di una Parigi frenetica di fermenti delle avanguardie dadaiste e surrealiste. Con i 100 mila franchi avuti dal suocero Jean aveva comprato una cinepresa Debrie d’occasione. Nizza era davanti ai suoi occhi, era lì per curare la tisi che lo avrebbe ben presto ucciso, alle spalle lasciava una vita difficile, e l’urgenza di tradurre in immagini il suo sguardo sul mondo trovò nel cine-occhio di Kaufmann il mezzo più adatto.
À propos de Nice… come dire, parliamone.
Non è satira indignata né libello polemico quello che Vigo mette in scena per 25 minuti, si respira l’ironia sottile e beffarda che tanto più coglie nel segno quanto più sceglie la leggerezza e si affida al gioco sapiente dei contrasti, al vortice delle inquadrature stranianti, delle riprese capovolte e delle dissolvenze incrociate, delle associazioni visive e analogiche, anarchiche corrispondenze fra mondi in antitesi. La flaccida borghesia dorata del casinò, dei balli e delle spiagge assolate, accarezzate da sfondi biancheggianti di vele e giochi d’acqua, i tavolini dei déhors dove vecchi sonnacchiosi e russanti riposano e oziose dame eleganti accavallano le gambe (Nizza è una città che vive soprattutto del gioco: i grandi alberghi, i forestieri, la roulette, gli abitanti locali, tutto votato alla morte) fa da contrappunto alla banlieu delle lavandaie chine sulla fontana, ai bambini deformi, alle ciminiere sbuffanti veleno e fuoco, a quella esplosione finale che tutto sembra avvolgere nel sogno, o, forse, nell’utopia di una palingenesi globale. La Promenade des Anglais e i quartieri poveri della città si alternano in un repertorio visivo fatto di riprese aeree e immersioni ad altezza d’uomo, sfila un’umanità divisa in due, quella che gode e quella che lavora perché l’altra goda, la natura tenta di farsi strada in questa morsa con la risacca sul bagnasciuga, le nuvole che si scontrano nel cielo, i voli lievi dei gabbiani, ma un gattino che rovista tra i rifiuti ci riporta alla realtà, e il cielo torna ad essere una fetta fra alti caseggiati con file di panni stesi ad asciugare. Vigo volle mostrare al secolo “quanto siano diffuse quelle volgari voluttà poste sotto il segno del grottesco, della carne e della morte e che costituiscono gli estremi sussulti di una società che rinnega se stessa fino a provocare in te la nausea e la voglia di una soluzione rivoluzionaria.” Presagi di morte, era il 1930, l’Europa si avviava svagata e danzante verso la catastrofe, mentre il Mardi Gras impazzava a Nizza con le sue maschere di cartapesta traballanti e inquietanti e Vigo riprendeva dal basso il tourbillon delle gonne svolazzanti di ragazze danzanti sul palco, scopriva carnosità esuberanti e biancheria dozzinale, metteva in bella mostra la dentiera della vecchia che ride, frivola e divertita, chissà di cosa? Guarda verso l’alto, ma Vigo le sbarra lo sguardo con ciminiere scure. La macchina scivola languida sui marmi bianchi di un monumento funebre sormontato da una mesta Pietà, torna sulla vecchia che ride e, in un volteggio surreale, si blocca sulla maschera macabra di un vecchio scarnificato, col cranio rovesciato in un ghigno feroce. Anziani rugosi, gente del popolo, ridono con le gengive sdentate e i berrettacci sghembi, l’altoforno non trattiene più le sue fiamme, la ciminiera è un nero totem sullo sfondo del cielo avvolto da vapori densi, mentre arriva la parola FIN. Film muto per un tempo che stava abbandonando il muto, come Misère au Borinage (Ellende in de Borinage) di Joris Ivens, del ’33, entra trionfalmente nella storia dei docu-film allo stesso tempo come impegno politico militante e laboratorio di idee sul cinema, film sperimentali e poemi visivi, tappa obbligata per capire il cinema e farlo. “Qualsiasi regista odierno, uomo o donna, dovrebbe iniziare la propria carriera sull’esempio di Vigo: con dedizione, spirito d’indipendenza e un’irresistibile voglia di sperimentazione”. (Dudley Andrews, À propos de Nice, in International Dictionary of Film and Filmakers, St. James Press, 2000) Marc Perrone, su incarico di Luce Vigo e ispirandosi alle musiche di Maurice Jaubert, grande collaboratore del regista, compose l’accompagnamento sonoro della versione oggi in circolazione, un commento puntuale, perfettamente accordato al ritmo delle immagini, ne coglie con millimetrica precisione il versante drammatico e la leggerezza visionaria.