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La signora Oyu di Kenji Mizoguchi: la recensione

Kenji Mizoguchi – la rassegna del Museo interattivo del Cinema a Milano

Lo speciale di Indie-eye dedicato a Kenji Mizoguchi

Nessun vortice di sentimenti travolge le barriere emotive dei protagonisti di Oyu sama, Mizoguchi mette sempre in scena il silenzio, la misura, bisogna spiare un volto, un guizzo subito sedato, un lampo negli occhi per coglierne la tempesta.
Ashikari di Junichiro Tanizaki, romanzo del 1935 che narra una storia ambientata nel periodo Meiji, fornisce la trama, e la sfida raccolta nel ’51 da Mizoguchi (nel ’53 il film entra nei canali internazionali vincendo il secondo premio alla Mostra di Venezia) è riuscire a non farne un mélo, ne avrebbe avuto tutte le caratteristiche. Il classico triangolo amoroso qui subisce un autentico sovvertimento delle sue componenti canoniche.

Oyu (Kinuyo Tanaka), affascinante vedova, la sorella Shizu (Nobuko Otowa), promessa sposa, e Shinnosuke (Yuji Hori), suo futuro marito ma innamorato di Oyu, sono figure di un mondo in cui le convenzioni sociali e i drammi che ne derivano non imboccano la strada della tragedia esplodendo senza freni, piuttosto implodono ripiegate su sé stesse in una contrazione dolorosa, che non è fatalistica accettazione o fuga dalla realtà in una chiusura sterile.

Mizoguchi riesce ogni volta a convincerci che esiste un rifugio estremo al male di vivere, ed è in quella misura ed eleganza di modi, in quella gestualità composta e raccolta, infine in quella leggerezza di trame che intrecciano rapporti umani spesso dolorosi e senza scampo su cui si fonda tutto il suo cinema. Posizionare gli attori negli interni con le movenze tipiche del teatro kabuki, indugiare in lunghi momenti di musica e canto, fare spesso teatro dell’azione un paesaggio ingentilito dal tocco dell’uomo e dal suo sguardo estatico nell’accarezzare un fiore, è la cifra di uno stile plasmato profondamente dall’ appartenenza alla propria cultura, ma che è anche espressione di una condizione umana universale.

Come non accade nelle sue pellicole più famose, questa volta la figura maschile è posta sullo stesso piano delle due femminili.
I tre personaggi hanno in sè la causa dei propri mali, ed è l’incapacità o, forse meglio, l’impossibilità di rifiutare la logica che sta distruggendo le loro vite e che non è solo imputabile alle convenzioni sociali. La devozione di Shizu per la sorella è quasi sovrumana, nasce da legami di sudditanza e affetto originati nell’infanzia e mai fatti crescere, è un legame divorante a cui nulla si oppone e detta il suo comportamento solo in apparenza inspiegabile.

Oyu, da parte sua, è mossa da impulsi contrastanti, vanità di donna e amore di sorella, sembra addirittura indifferente a volte, superficiale e incapace di capire la tragedia di Shizu, ma la maschera è ben presto evidente. Shinnosuke, infine, sembra il personaggio più adatto a creare disagio e rifiuto nello spettatore per quell’inettitudine che lo attanaglia, sembra ogni volta più ripiegato su sé stesso di fronte alle tensioni che stanno crescendo, ma altro non è che incapacità a vivere. Un’infanzia senza madre alle sue spalle è fatta appena balenare da Mizoguchi, ma è quanto basta per spiegare molto.

Mizoguchi non insiste sui risvolti narrativi della vicenda, sa che la realtà non è un romanzo, dunque punta il riflettore su esistenze che si consumano nel loro centro vitale, fa ruotare intorno a queste solo figure sbiadite, parti di un coro a cui i protagonisti sono estranei, pur subendone il condizionamento al punto da venirne annientati. Kinuyo Tanaka nella parte di Oyu-sama fu imposta alla regia dagli Studios e, benchè abile attrice, non tradusse in pieno il fascino che il regista intendeva assegnare a questa figura femminile. L’interprete di Shizu, Nobuko Otowa, è molto più convincente ed è suo il vero ruolo drammatico, una bellezza dolce e impotente che si annulla lentamente fino all’ultimo attimo di vita.

Shinnosuke le è vicino con le sue frustrazioni ma anche con sincero rispetto, un microcosmo d’infelicità si snoda davanti ai nostri occhi, quei personaggi destinati a vivere dietro maschere di rispettabilità a cui non sanno né possono ribellarsi sembrano così lontani dal nostro mondo! Ma alla fine ci chiediamo quanto lontani.

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