Scorre in sovraimpressione l’incipit de L’imperatrice Yang-Kwei-Fei:
“Cina VIII secolo. Changan, la capitale, è al centro di intrighi e complotti. La dinastia Tang è in declino dopo il suo apogeo con l’imperatore Huang Tsung il cui amore per Kwei-Fei, la bellezza più straordinaria della Cina, è noto ancora oggi …”
E’ così che Mizoguchi decide (mancava solo un anno alla sua morte) di passare al colore, dopo una vita trascorsa a costruire l’immagine a partire dall’ombra. Esperienza unica, tornerà subito al suo amato bianco e nero negli ultimi due film.
L’avrebbe usato ancora? Non lo sapremo mai, ci basta comunque aver constatato con quanta maestria ha giocato con i rapporti cromatici, quale plastica luminosità ha dato ai marmi e leggerezza diafana alla trasparenza delle cortine di seta ricamata che dividono gli ambienti di corte, e, infine, con quale potenza di stampo espressionista ha segnato lo iato fra umili e potenti, addensando masse scure e contrasti stridenti in esterni dove il mondo dorato di corte si sbriciola, naufragando nella violenza di masse inferocite dalla corruzione e dal malgoverno di funzionari rapaci e ingordi.
Con quella suprema capacità di raccontare per immagini una storia dell’uomo che attinge al reale, lo rielabora nel fantastico e lo restituisce come oggetto d’arte, Mizoguchi s’ispira al racconto Ch’ang Hen Ko’ di Pai Lo T’ien.
E’ la storia dell’imperatore Huan Tsung (Masayuki Mori) inconsolabile per la morte della moglie Wu-Hui, e di Yu-Huan (Machiko Kyo), giovane parente povera della famiglia Tang, introdotta a corte perché sia notata da lui, restìo ad ogni proposta dei suoi ministri che gli portano a ripetizione donne sempre più belle a cui Huan Tsung si mostra del tutto indifferente.
La piccola Yu-Huan però non è solo bellissima, ha molto di più: somiglia all’ex imperatrice, e certo questa credenziale gioca il suo ruolo, ma lei va ancora oltre, è una donna intelligente e sensibile e ha sufficiente realismo per rispondere: “ Sarò sempre il vostro giocattolo ” al cortigiano che la scopre e la preleva dalla cucina dove lavora come sguattera dicendole: “Approfittate del fatto di essere nata bella”.
Il destino della donna nella società violenta degli uomini resta il tema prediletto di Mizoguchi, anche quando si colora dei toni della favola. Con abile sintesi drammaturgica, infatti, sullo scenario fantastico s’innestano i colori cupi della tragedia shakespeariana, e lotte di potere, congiure e delitti faranno precipitare verso la catastrofe la storia di un amore profondo, nato nella bellezza. Yu-Huan è arrivata, infatti, al cuore dell’imperatore e il merito è della musica, che lui ama e con cui parla di sè quando trascorre il suo tempo migliore suonando il liuto o attraversa il giardino di susini in fiore esclamando: “Voglio catturare questa vista nella musica”. Yu-Huan diventa così l’imperatrice Yang-Kwei-Fei e con lei Huan Tsung trova la libertà di essere quell’uomo che ha sempre sognato essere. Lo sviluppo complesso della trama intreccia ora storia e favola e arriva all’akmè finale dove s’impone il sacrificio della donna per amore del suo uomo.
Huan Tsung non ha potuto opporsi, prigioniero di una ragion di Stato che non ammette deroghe, l’ha vista morire per salvarlo e il ricordo di lei lo accompagnerà fino alla vecchiaia dolorosa, funestata dalle trame del figlio che vuol detronizzarlo.
La storia si snoda d’ora in poi in un lungo flashback, che riporta in superficie i ricordi di Huan Tsung vecchio, ormai morente, davanti alla statua della sua amata Kwei-Fei: “ Te ne sei andata. Cosa mi resta? Io, detronizzato dal sangue del mio sangue … Questo mondo è dunque di ghiaccio? Kwei-Fei, Kwei-Fei …”
E dalla statua arriva la voce dell’imperatrice: “ Sono venuta a cercarti … aspetto questo giorno da molti anni. Finalmente, eccolo arrivato. Dammi la mano, lascia che ti guidi ”. L’imperatore sussurra: “ Ero così impaziente. Staremo per sempre insieme. Non mi lascerai mai … La nostra vera felicità è qua, e non avrà fine …”
Riecheggia, in questo dialogo fra ombre, l’elegia delicata del finale de I racconti della luna pallida di agosto, con la voce di Miyagi che parla a Genjuro: “Non sono morta mio amato, sono qui vicino a te…”
Come allora, la tragica parabola della follia umana, che fa della vita una vicenda miserabile di passioni insane, si stempera nella grazia di una favola che ancora una volta, come sempre nel cinema di Mizoguchi, dà il primato alle ragioni del cuore.
Presentato alla mostra di Venezia del 1955, L’imperatrice Yang-Kwei-Fei fu accolto da giudizi contrastanti, ci fu chi ne criticò il calligrafismo stilistico e chi ne applaudì la forza drammatica. Certo non si toccano i vertici di Vita di O-Haru (da cui, pure, trae spunti nel tratteggio della figura di Kwei-Fei, molto vicina a quella di O–Haru) o la complessità tematica de I racconti della luna pallida di agosto, né è paragonabile alla forza drammatica delle scene di massa di Sanshô Dayû e alle sue allegorie, ma resta un prodotto di grande scuola, documento tra gli ultimi di un percorso di estrema coerenza stilistica e forte impegno intellettuale.
Un rilievo particolare va dato al protagonista maschile, Masayuki Mori, interprete de L’idiota di Kurosawa, uno dei pochi personaggi maschili a cui Mizoguchi assegni un ruolo positivo, mentre il giudizio di L.Marcorelle sul film, “ Il più bell’inno che il cinema abbia mai rivolto all’amore di una donna per l’uomo ” pecca forse di entusiasmo eccessivo, soprattutto perchè rischia di oscurare quanto di questo amore ci sia, in realtà, in tutto il cinema di Mizoguchi, nessun film escluso.