Kenji Mizoguchi – la rassegna del Museo interattivo del Cinema a Milano
Lo speciale di Indie-eye dedicato a Kenji Mizoguchi
Nel Giappone dell’XI secolo una storia di schiavi e di padroni, di potere e di sopraffazione, di uomini illuminati e uomini cinici e violenti, di donne, tutte perdenti, ma sempre capaci di sacrificio e di immensa umanità. C’è anche, e soprattutto, un Mizoguchi “politico” in questa scelta di ispirarsi a Sanshô Dayû, leggenda di origine medievale, “quando il Giappone non era uscito ancora dall’oscurità, tramandata per secoli dalla gente e ricordata, oggi, come una delle leggende tradizionali della nostra storia”. Il suo è il canto dell’antico aédo che raccoglie la memoria orale del popolo e la plasma in immagini per consegnarla al ricordo dei posteri.
L’atmosfera dell’incipit è serena, il sole filtra tra le piante, le donne, avvolte in luminosi kimono serici, avanzano lente con ampi cappelli a pagoda. E’ la famiglia del Governatore, la moglie Tamaki (Kinuyo Tanaka), un’ancella e due figli adolescenti, Zushio (Yoshiaki Hanayagi) e Anju (Kyoko Kagawa) che tornano a casa attraverso il bosco.
Zushio corre felice, ma un’ombra lo attraversa ed esclama: “Com’è successo che mio padre sia finito nella lontana Tsukushi?”
Il padre è un uomo buono e giusto, si è opposto all’aumento delle tasse sul riso e alla richiesta di mandare i suoi contadini in guerra. Per lui sono esseri umani, ha perfino insegnato loro a scrivere, ma questo non va, rompe gli equilibri del potere e perciò è stato decretato il suo trasferimento, che in realtà sarà un esilio. I contadini rumoreggiano davanti alla sua casa, vorrebbero insorgere, difenderlo, ma tra loro ci sono gli intramontabili paladini della moderazione, quelli che sempre frenano e riportano alla ragione le masse urlanti: “Tornate a casa, se vi ribellate lui sarà incolpato”, e sarà così che le magnifiche sorti e progressive dei popoli continueranno a seguire il corso previsto da chi comanda.
Prima che lo scenario diventi l’inferno del lager che vedremo per tutto il resto del film, un interludio elegiaco di grande dolcezza si svolge fra le pareti di questa casa dove regnano amore e rispetto reciproco, mentre il Governatore dà l’addio alla famiglia. Moglie e figli dovranno anche loro andarsene e trovare rifugio dai nonni materni. L’uomo parte lasciando i segni del suo testamento spirituale alla dolce Tamaki (una delle più belle figure femminili di Mizoguchi, silenziosa e discreta, un profilo bianchissimo incorniciato dalla lunga treccia nera) e ai suoi figli, a Zushio, in particolare, il suo piccolo uomo: “Zushio, sarai un uomo ostinato come me? Ricorda, senza la pietà un uomo non è un essere umano. Sii duro con te stesso ma compassionevole con gli altri. Gli uomini sono stati creati uguali. Tutti hanno diritto alla felicità.”
La statuetta della Dea della Pietà, tesoro della famiglia, gli viene consegnata come nume tutelare e suo ricordo. Inizia così l’esodo delle donne e dei bambini lungo strade selvagge, fra alberi scheletriti, contrade inospitali infestate da briganti e mercanti di schiavi. Il lungo racconto successivo è quello di una progressiva discesa all’inferno, nel dominio di Sanshô Dayû (Eitaro Shindo) rapace e spietato balivo, padrone assoluto della vita e della morte dei suoi schiavi.
Passerano gli anni, i due fratelli sono rapiti e separati dalla madre in una scena crudele di tradimento, violenza e pianto, nella cornice di quel lago Biwa piatto, di grigiore immobile, spesso presente nella filmografia di Mizoguchi, dagli Amanti crocifissi ai Racconti della luna pallida d’agosto. Scene d’azione e altre in cui il pathos prevale si susseguiranno nel raccontare il calvario di vite ridotte in schiavitù, e sfileranno gli orrori di un microcosmo concentrazionario dove possono avvenire anche piccoli miracoli. Si tratta di Taro (Akitake Kôno), il figlio di Sansho, che per una strana alchimia del destino è diverso dal padre e sarà sconvolto dalle parole che Zushio gli ha detto. Erano quelle che il padre lontano gli aveva lasciato prima di partire.
“Ripetimi le parole di tuo padre” gli chiede, e poi deciderà di andarsene per sempre da Sansho, che non riconosce più come padre. E ancora, dopo tanti anni, dieci, quando la disperazione di Zushio lo sta portando ad assimilarsi con i suoi aguzzini e si prepara a marchiare a fuoco un vecchio schiavo fuggitivo, arriva fino a lui, per una di quelle strade segnate dal caso, il canto della madre lontana.
E’ la voce della giovane schiava venuta da Soda, l’isola dove Tamaki vive confinata in un bordello:
“Ho tanta nostalgia di te Zushio,
non è la vita una tortura?
Ho tanta nostalgia di te Anju”
La piccola Anju piange, e in un montaggio di grande suggestione, che avvicina piani temporali e spaziali diversi, riappare Tamaki.
Ora il suo nome è Nakagimi, e sulla riva del mare chiama i figli. La funzione della voce in questo film è centrale, come sottolinea Michel Chion ( La voix au cinéma ,Paris, Editions de l’Etoile, 1993): “La voce della Madre (…) sconvolge i limiti, attraversa il tempo e lo spazio”. Questa voce darà ad Anju la forza di opporsi al processo di degrado del fratello: “Hai già il cuore di un bandito, un’anima peggiore di quella di un mendicante”, e per Zushio sarà la salvezza che Anju conquista con il sacrificio estremo di sé, nelle acque ferme di quel lago dove lentamente si lascia affondare mentre risuona il canto della madre e la schiava Namiji la guarda, china in preghiera sulle ginocchia.
Zushio ora può fuggire e ritrovare Taro, divenuto monaco nel tempio imperiale buddista. Le loro visioni della vita si confrontano, al pessimismo di Taro che non crede alla possibilità per l’uomo di una giustizia che non sia al riparo del grande Buddha, Zushio contrappone la sua spinta umana, vitale, che lo porta all’azione e a tentare il tutto per tutto. La storia prende qui strade inaspettate, e dopo aver percorso tutte le categorie dello schema di Propp, dalla rottura dell’equilibrio iniziale alle peripezie degli eroi, giunge ora al ristabilimento dell’equilibrio attraverso il meccanismo dell’agnizione, affidato alla statuetta della Dea della Pietà. Entra in scena il Primo Ministro, un uomo retto, la statuetta permette il riconoscimento di Zushio e sembra che la giustizia possa trionfare.
Ma in quest’ultimo atto della tragedia la vittoria della giustizia si dimostrerà solo illusione e sarà ancora Sanshô Dayû a prevalere.
Di fronte alle armi e al sopruso che si alimenta dell’ossequio servile non c’è scampo, sembra dire Mizoguchi, e affida all’ultima parte del film il senso più profondo del suo messaggio politico, intriso di umanesimo e salda conquista di quella “coscienza tragica” in cui Karl Jaspers individuò l’unica possibilità per l’uomo di “… aprire gli occhi sul mondo, avendo coscienza di essere al limite del mistero. Con la coscienza tragica ha inizio il movimento nella storia, che non si manifesta solo in movimenti esteriori ma si svolge nelle profondità stesse dell’animo umano” (K.Jaspers, Über das Tragische, 1952).
Nell’ “apparente assurdità della sventura” Mizoguchi indica all’uomo la strada per il suo riscatto. Zushio tornerà povero, esule da un mondo inconciliabile con gli insegnamenti del padre, ma saranno proprio quelli a fargli ritrovare la madre, unica sopravvissuta, sulla riva di quel mare dove, lacera e cieca, continua il suo canto. Mizoguchi scrive a questo punto uno dei finali più belli della storia del cinema