L’occupazione americana del dopoguerra dettò regole rigide agli artisti giapponesi, il controllo censorio pose forti limiti alla loro creatività e soprattutto fu vietato fare film storici, avrebbero rinfocolato nella popolazione un senso di appartenenza che andava invece accuratamente rimosso. Dunque, racconta Mizoguchi in Kinema Jumpo, 1954 n. 8 “…andai nel quartier generale delle forze di occupazione americana e spiegai loro che Utamaro era un pittore del popolo ”.
Riuscendo a dimostrare agli occhiuti burocrati che non c’era traccia alcuna di revanchisme nel suo lavoro ma solo puro amore per l’arte, Mizoguchi potè girare Utamaro o meguru gonin no onna, il suo film sull’arte e su uno dei suoi più grandi creatori, Utamaro (1753-1806), raffinato disegnatore della bellezza femminile e acclamato autore di immagini e scene erotiche, frequentatore assiduo di cortigiane di cui esaltò la bellezza negli Annali delle case verdi, nome del quartiere delle cortigiane di Edo (l’odierna Tokyo). Pittore di stampe capace di esprimere nei suoi disegni l’intensità dell’emozione umana cogliendo la poesia e il mistero del soggetto femminile, Utamaro sembra indicare a Mizoguchi la strada per catturare la bellezza degli elementi primari della natura, acqua, terra e cielo, e porre al centro di questa cornice la donna con i suoi momenti di tristezza profonda e di indomabile energia vitale.
Osserva D.Anderson a proposito della donna come fulcro del cinema di Mizoguchi, elemento di conciliazione fra il suo spirito ribelle e il versante quasi stoico della sua risposta esistenziale: “ Se le donne si sono ribellate contro un sistema di proibizioni, di scambi e di gerarchia stabilito dagli uomini […] è perché le donne soltanto vedono fino in fondo a questo sistema e ne percepiscono la futilità. Se hanno qualcosa da insegnarci, è la comprensione sovra-personale, sovra-storica, essenzialmente artistica dell’assurdità di tale esistenza ”.
Yoshikata Yoda, sceneggiatore che operò in simbiosi con il regista, mise in evidenza l’analogia del perfezionismo estetico di Utamaro con la ricerca artistica e umana di Mizoguchi: “ Ciò che conta per me è aver voluto, forse inconsciamente, fare il ritratto di Mizoguchi attraverso quello di Utamaro ”.
L’esilio creativo e l’ottusa limitazione imposta all’arte, costretta fra caos e incertezza nel clima difficile del dopoguerra, trovano singolare corrispondenza fra i due artisti anche a distanza di secoli. La pena inflitta dallo shogun a Utamaro, tenere le mani legate cinquanta giorni per aver trasgredito il divieto di guardare la bellezza proibita della sua donna, assume una grande valenza metaforica sulla libertà dell’arte.
Sovversivo fin nel profondo rispetto a tutto quello che della libertà si dichiara nemico, il film colpisce per la bellezza delle immagini, la sapiente e raffinata eleganza delle forme che fondono intelletto ed emozione in sintesi di movimento, suono, luce, espressione, imponendo così, con forza accresciuta, quelle idee su cui l’uomo ha scritto le sue pagine più alte.
Intorno alla figura ascetica dell’artista ruotano cinque mondi femminili e intorno ad essi, a loro volta, altri mondi e storie che s’intrecciano nell’infinito caos quotidiano, mentre emergono tracciati di esistenze attraversate in vario modo dall’amore e dall’odio, dalla gelosia e dalla passione che scopre confini solo nella morte.
Testimonianza forte di dedizione di un uomo alle sue scelte, Utamaro o meguru gonin no onna è un affascinante manifesto sull’arte e sulla libertà di espressione contro rigidità e conformismi. Per lo shogun non conta che lo sguardo dell’artista contempli solo come oggetto d’arte quella bellezza, contaminata, al contrario, dallo sguardo lubrico del potere che la sfrutta per il suo piacere. Il volere dell’uomo potente prevarica il più debole nel tempo della storia, ma nulla può sul tempo dell’arte.
Le vicende umane sono ciò di cui l’arte si alimenta, la bellezza femminile la sua fonte di energia, lo spazio in cui vivono è l’infinito.
Mizoguchi ha trovato in Utamaro il suo alter ego, le mani che sfiorano leggere la schiena bianchissima di Takasode (Toshiko Iizuka), spazio vivo su cui dipingerà un ritratto che vivrà con lei, e soffrirà e proverà gioia con lei e, quando morirà, morirà con lei, sono anche le sue mani e quelle di ogni artista che sa bene quanto di eterno ci sia nella sua arte, ma anche di effimero.