Davanti ad un muto di Ozu la domanda che sorge ogni volta spontanea è: ma che bisogno aveva del sonoro?
E infatti se l’è chiesto anche lui ed ha ritardato di ben cinque anni l’ingresso in quel mondo che non sembra aver aggiunto granchè alla sua capacità sublime di comunicare tutto quello che è possibile comunicare col cinema.
Nel mondo di Ozu ritmo degli eventi, tempo reale e tempo psicologico, fluire delle immagini, microcosmo esteriore fatto di quiete e macrocosmo interiore dove, scavando, “… si scoprirebbe la violenza compressa e potenziale dell’intero sistema familiare giapponese, nonché il pacato eroismo del giapponese per le cose che concernono la propria famiglia” (Anderson-Richie, Il cinema giapponese, 1961) tutto ha la sua collocazione più adeguata e opportuna nel cammino verso la perfezione.
La sceneggiatura è al primo posto.
Diceva il regista: “Per me c’è soltanto un modo, scrivere e correggere, correggere e scrivere, giorno e notte. Solo così si possono fare dei passi avanti”.
E con Kogo Noda, soggettista di quasi tutti i suoi film, il sodalizio fu perfetto: “Io e Noda abbiamo le stesse opinioni sul bere e sull’andare a letto tardi, e credo che questa sia la cosa più importante”.
Dekigokoro (Capriccio passeggero) è fantasia e capriccio che passa, Sakamoto Takeshi è l’attore icona del momento, mobile, guizzante, tarchiato e sempre sudato, sorriso a 64 denti, lo straccetto per detergersi appoggiato in testa come un berretto, pantalonacci che infila e sfila a ritmo vorticoso, restando in camicione e gambette storte e muscolose in bella vista.
Quando però vuol farsi bello per Hirue, la giovanissima giapponesina senza casa nè famiglia che ha raccolto per strada e affidato all’amica ostessa, allora indossa il kimono riposto con le palline di naftalina e il suo elegante ventaglio.
Kihachi (questo è il nome del personaggio) fu protagonista anche di altre vicende in Storia di erbe fluttuanti, Una ragazza innocente (perduto) e Una locanda di Tokyo, un filone che si potrebbe definire sottoproletario del cinema di Ozu, e divenne figura di grande successo al punto che il regista ne fece l’eroe di un ciclo.
Con lui vive il figlio Tomio, attore giovanissimo e bravissimo di questi anni del muto, non c’è traccia di madre in casa né se ne fa mai cenno, lo spazio interno è un’informe accozzaglia di oggetti in libertà, tranne l’angolino dove Tomio studia.
Kihachi è un superficiale, un simpatico sconclusionato, non ha idea di cosa significhi allevare un figlio, gli dà soldi che gli procurano un’enterite acuta che quasi il ragazzino muore perché li ha spesi tutti in dolci e frittelle, ma di fronte all’impegno scolastico di Tomio, alla sua bravura in classe, al prof che viene a visitare il malatino disteso con la buffa borsa del ghiaccio in testa, non ha tentennamenti, Kihachi è felice.
Nel suo povero lessico di persona incolta riesce a dire le parole più giuste su quanto sia importante darsi un’istruzione di cui sente la pesante mancanza su di sè.
Kihachi lavora in una fabbrica di birra insieme all’amico Jiro, giovane, bello, severo tanto quanto lui è mattacchione.
Ma sono amici, Jiro lo apostrofa sempre con un “vecchio” che dovrebbe riportarlo alla serietà, ma niente da fare, Kihachi è un vero monellaccio e ora la graziosa Hirue è il suo sogno.
Peccato che tra Hirue e Jiro nasca qualcosa che rientra meglio nell’ordine naturale delle cose, e se Jiro si tiene accuratamente alla larga dalla fanciulla perché l’amicizia è un legame sacro, la piccola Hirue soffre a distanza con una sobrietà di manifestazioni che solo una piccola giapponese riesce a rendere credibile.
Ma l’amore vince su tutto, Hirue non è la donna per Kihachi e la vita sembra volgere al peggio quand’ecco il colpo di scena: il buffo Kihachi si scopre padre. E’ il momento centrale del film, una poesia da bassifondi che incanta, non bastano parole a descrivere quello che Ozu è capace di scoprire quando va giù a capofitto fino in fondo alle persone e ne riemerge con tutto quello che sono, detto con poche parole e qualche rapida pennellata. La vicenda prende ora strade diverse e in fondo annunciate, anche se non mancherà di stupire fino alla scena finale.
Da segnalare, fra tante, la scena iniziale, una sala di teatro kabuki di periferia. La storia di una geisha che s’innamora del cliente è raccontata dalle didascalie mentre la mdp gira pigramente fra il pubblico, quasi tutto maschile, molto partecipe, seduto a terra con i ventagli in movimento continuo. Proletariato a riposo, una specie di dopolavoro, l’immancabile gag alla Ozu è pronta per la ripresa, e allora ecco, al centro dello spazio scenico, un portamonete dimenticato a terra.
Quel che segue è vita allo stato puro, rielaborazione visiva sorridente e complice, sguardo sornione che registra divertito con disarmante naturalezza la natura profonda dell’uomo.