venerdì, Novembre 22, 2024

Il figlio unico di Ozu Yasujiro

Con Il figlio unico del ’36, preceduto da L’università è un bel posto, andato perduto, Ozu decide di cedere al sonoro (al colore passerà solo nel ’58) ma nulla cambia nel repertorio espressivo, salvo un’accentuazione in termini di pessimismo che conferisce al film un tono amaro, quasi dolente, mentre svanisce quel tocco leggero che in C’era un padre e Sono nato ma … dava vita a quadri di straordinario disincanto nella rappresentazione del reale.
Avvertiamo qui il pesante riflesso delle condizioni di vita nel Giappone dell’epoca, quando le illusioni maturate nell’epoca Meiji (1868-1912) sulle magnifiche sorti e progressive del paese crollarono di fronte alla disoccupazione dilagante (il 44 per cento di laureati e diplomati privi di occupazione) e ad un processo di modernizzazione che si era abbattuto sulle strutture tradizionali senza fornire adeguati contrappesi e garanzie di effettivo miglioramento nelle condizioni di vita della classe media e del proletariato.

Per quel sincretismo culturale che lega con singolari parallelismi vicende di luoghi geograficamente anche molto lontani tra loro, pensiamo allo stesso smarrimento che invase l’Europa alla fine dell’incantesimo quarantennale della cosiddetta Belle Epoque, quando le nazioni si avviarono ignare verso la catastrofe sull’onda dei valzer viennesi.
E tamburi di guerra non mancarono neanche nell’Impero del Sol Levante, la Cina era vicina e, a seguire, il resto del mondo.

I temi di questo film intrecciano dunque dimensione pubblica e privata, mettendo di volta in volta in forte evidenza come non sia possibile scindere le parti quando sentimenti, legami famigliari, ideali e progetti sono pesantemente compromessi dal bisogno e dalla mancanza di prospettive di lavoro e di affermazione, perchè lo Stato non garantisce ai suoi cittadini quelle tutele che ogni contratto sociale pone a fondamento della convivenza civile.
E allora Ozu apre con un prologo molto edificante: catena di montaggio, operaie al lavoro tra fumi che si sprigionano dalle caldaie, la vedova Otsune che lavora per sè e per il figlio adolescente, in casa e in fabbrica.

Per lei il lavoro è l’unica legge, e quando il figlio Ryosuke le fa timidamente capire di voler proseguire gli studi poiché a scuola è brillante lei gli dice brusca: “Lascia perdere, sei solo un sognatore”.
Ma poi arriva il prof a salutare l’alunno (un Chishū Ryū giovane, bello e pieno di ideali, in procinto di trasferirsi a Tokyo perché il villaggio gli va stretto per i suoi interessi di studioso) e la madre scopre che Ryosuke in realtà aveva detto al prof che certamente avrebbe proseguito gli studi.
Un sonoro ceffone per la bugia ma poi Otsune non ci dorme la notte e alla fine si convince che è giusto così e Ryosuke proseguirà gli studi.

La sequenza è indimenticabile, un monumento all’amor materno, al rispetto filiale, a tutta una serie di buone cose del tempo che fu, con il piccolo Ryo, la sua serietà, la madre, il suo amore, il loro pianto felice e Ozu a riprenderli estasiato. Su questa promessa di futuro del prologo s’innesta il corpo del film, sono trascorsi tredici anni, eravamo nel ’23 a Shinshu, ritroviamo Ryosuke nel ’36 a Tokyo.

La madre nel frattempo ha venduto la casa e il campo che le aveva lasciato il marito per pagare gli studi fino all’Università, ora lei alloggia nel dormitorio della Finanza, ma non importa, il sacrificio non le è pesato di fronte all’avvenire del suo unico figlio e finalmente può andare a Tokyo a trovarlo.
Troverà una città che Ozu ci presenta come una periferia degradata senza soluzione di continuità. Delle bellezze monumentali che la donna va a vedere per un doveroso giro turistico  parlerà svogliatamente nei suoi ritorni a casa, quello che scorre sullo schermo è soprattutto desolazione di sterpaglie e panni stesi ad asciugare, skyline di capannoni industriali e fila di casette modeste sormontate dalle ciminiere degli inceneritori.

All’ombra di uno di questi colossi  si svolge il primo dialogo sconfortante tra madre e figlio, un drammatico susseguirsi di campo e controcampo dopo l’ingresso nello spazio visivo delle due figure, riprese di schiena, brune nel controluce. Camminano lente, come a fatica, la rivelazione è vicina, si fermano, guardano i camini che fumano: “ Tokyo produce montagne di rifiuti … “ Quindi si accovacciano a terra, continuano a fissare come ipnotizzati i quattro giganti sbuffanti sullo sfondo, inizia il dialogo mentre la macchina gira loro intorno a comporre quadri di perfezione geometrica.

Hai visto che lavoro faccio. Ti ho deluso.” Dice il figlio alla madre. Ryosuke si è sposato, ha un figlio in fasce, insegna alle serali e tira a campare a malapena con la dolcissima Sughiko, che venderà perfino il kimono perché il marito possa portare un po’ in giro la madre con qualche yen in più. Tutto quello che Otsune ha fatto per lui è fallito miseramente, non è diventato la persona importante che nel lontano ’23 sognavano entrambi, Ryosuke ha tenuto la madre all’oscuro di tutto e il suo silenzio pudico è il risvolto più doloroso, quello che Ozu tratteggia con una comprensione umana profonda. Con altrettanta pietà ritrae la reazione delusa di Otsune, i suoi sguardi che perdono gradualmente di vivacità, quel non voler ferire, nonostante tutto, il figlio che vede come un vinto.

Il crescendo emozionale è affidato a quadri ad incastro (Ryosuke assorto nella sua tristezza in classe mentre gli alunni lavorano e la madre immobile in casa, impietrita nella sua angoscia), lunghe inquadrature immobili di fronte ad una parete con un disegno infantile, la luce del giorno che cresce piano, il pianto di Sughiko che s’incunea in un cono d’ombra laterale mentre, stretto tra i fusuma (porte scorrevoli), avviene lo scontro risolutivo fra madre e figlio, al centro della notte insonne, quando lei lo rimprovera di essersi rassegnato e non saper lottare. Ma anche il prof che hanno incontrato nel suo alloggio di Tokyo, partito dal villaggio con tante belle speranze, si è ridotto a frigger cotolette per vivere e ricorda con Ryosuke quel fiume del villaggio dove di sera fioriva l’enotera.
Mi piacerebbe tornare al villaggio nella stagione dei fiori di loto…” dice, sapendo che non accadrà mai.

Dal villaggio sono fuggiti perché era giusto farlo, idealizzarlo ora non serve, il villaggio non può essere il rifugio di un fallimento collettivo e, dopotutto, neppure lì c’era un’Arcadia felice. Le macchine della fabbrica continuano ad andare a ritmo continuo, ora le operaie sono giovani e Otsune, tornata a casa, non ha smesso di lavorare per superati limiti di età.

Lava i pavimenti china a terra con straccio e secchio, e intanto racconta all’amica che Ryosuke sì, sta benissimo, si è affermato, è una persona importante.
L’inserimento finale dell’episodio del piccolo vicino di casa, figlio di madre vedova e povera china sulla macchina da cucire, che viene scalciato da un cavallo e portato di corsa in ospedale da Ryosuke, sembrerebbe un raggio di sole nella miseria generale, un inno all’altruismo e alla solidarietà. I soldi che l’uomo doveva usare per un giretto in città con la famiglia li dà alla vedova, ma il quadro amaro d’insieme non cambia. Il figlio unico non è il primo e non sarà l’ultimo film di Ozu dal quale la tragedia di una condizione umana segnata da miseria e abbandono balza prepotente alla ribalta con  la compostezza fatta di rinuncia a formule spettacolari e proclami, attese di redenzione, speranze di palingenesi.

Lo sguardo di Ozu sul mondo è troppo serio per perdersi così facilmente,  la Storia preme sulle pareti di questo film, entra prepotente con le sue date e i suoi connotati, registrarne la presenza minacciosa è quel che gli preme fare. Sullo sfondo c’è  la Germania,  la penetrazione è cominciata, un manifesto, Germany, è in casa del professore e lunghi inserti di una Vita di Schubert di Willy Forst del ’33 (Leise flehen meine Lieder) scorrono al cinema dove Ryosuke ha portato la madre, credendo di farla felice mentre lei, poverina, si addormenta e il figlio la guarda sconsolato. Le immagini sullo schermo passano gioiosamente frenetiche, la fanciulla tedesca corre, bionda e spumeggiante, fra le spighe di grano, l’amante la insegue affannato, la raggiunge, breve dialogo, lungo sguardo, stacco, lo scialle tirolese cade sulla paglia.

Altri mondi, altre corse nel vento, altri colori.

Paola Di Giuseppe
Paola Di Giuseppe
Paola di Giuseppe ha compiuto studi classici e si occupa di cinema scrivendo per questo e altri siti on line.

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