venerdì, Novembre 22, 2024

Il gusto del saké di Ozu Yasujiro: la recensione

Come si può parlare del gusto del sakè? E, soprattutto, cos’è il gusto del sakè ?
Si beve caldo o freddo, non c’è film giapponese in cui manchi la piccola bottiglietta un po’ panciuta dal collo stretto, di ceramica bianca o finemente decorata, che si porge con gesto cortese e leggero all’ospite, al marito, all’amante; difficile il contrario, una donna è invitata a bere solo in una casa di geisha.. Ne l’Impero della passione di Oshima lei esce perfino nella neve in una notte da lupi per procurarne ai suoi uomini.

Il saké in Giappone scorre a fiumi, le piccole, delicate ciotoline in cui viene versato ingannano, la sbornia da saké è frequentissima.
Ozu introduce nel film anche birra e whisky, dopo le bombe l’America è arrivata anche con i suoi beni di consumo, e le angolazioni di ripresa vengono addirittura a volte misurate da file di bottiglie allineate e già consumate in primo piano, mentre i bevitori si appoggiano stancamente al bancone del Torys bar continuando a bere o si accovacciano intorno al tavolo del prof Horie dove, più che mangiare, si servono da bere.

Tornano a casa malfermi e ciondolanti sulle gambe, intonano inni patriottici, la testa cade pian piano sul petto, e i figli, quando ce n’è ancora uno in giro, li guardano con pena mista a disgusto.

Scenari alternativi, pochi.
Qualche esterno su ciminiere fumanti, le stesse, in bianco e nero, di Viaggio a Tokyo, e il colore non le ingentilisce, lunghe teorie di facciate di periferia con panni stesi ad asciugare, in collina la casa elegante del prof universitario con moglie molto giovane presa in seconde nozze, gesto sicuro e piglio appagato dell’uomo di successo che non ha ancora bisogno di pillole per ringiovanire.

Riceve i suoi amici per giochi da tavolo e gran bevute, si festeggia anche il vecchio Zucca, antico prof ritrovato per caso in giro per la città, immiserito, figure penose, lui e la figlia, zitella sfiorita rimasta ad accudirlo e così destinata alla solitudine.
Faranno una colletta gli antichi studenti, l’hanno voluto a cena dove l’hanno visto bere e mangiare come da lunga astinenza.

Cambio di scena, entra in campo la coppia giovane Koichi e la moglie.
Ozu ne fa un ritratto a schizzi rapidi, netti, fendenti, è la famiglia media giapponese anni ’60, orientata verso i miti del consumismo e dei beni di facciata.

Nei riti stanchi della loro vita quotidiana si rispecchia una convivenza senza soprassalti, sono una giovane coppia già vecchia, ci si mette a mangiare dove capita e senza aspettarsi, la casa è diventata un parcheggio notturno. Asse portante del film è Shuhei Hirayama (Chishū Ryū). Vedovo, vive e lavora nella zona industriale di Kawasaki con la figlia ventiquattrenne, Michiko, e il minore dei due figli maschi, Kazuo (il maggiore è Koichi di cui si è detto sopra).

Tra una serata e l’altra, fra amici e sakè, Hirayama decide che Michiko deve sposarsi, finora non si era mai posto il problema, era solo una bambina, anche se per pulire casa e far da mangiare poteva andar bene. Ma gli amici premono e, dopo aver visto la figlia di Zucca, Hirayama stabilisce di privarsene finchè è in tempo, è ancora abbastanza giovane ma il tempo passa in fretta.
Matrimonio combinato, come usava una volta, non vedremo mai lo sposo mentre lei, nel suo magnifico abito da cerimonia, ha tutta la tristezza del mondo negli occhi quel mattino, di fronte al padre e al fratello, elegantissimi in frac nero. Stranezza della moda maschile, è la stessa divisa che s’indossa ai funerali.

Nessuna ripresa della cerimonia, uscita di casa la sposa Ozu preferisce non seguirla e fare invece un giro per le stanze vuote.
Forse, ci costringe a pensare, se avesse sposato Miura di cui era innamorata! Ma nessuno ne sapeva niente, tranne il fratello giovane che appare e scompare come un ectoplasma sulla scena. Pareva addirittura che la piccola Michiko non fosse mai destinata a sposarsi, con padre e fratello a carico, e così Miura s’è trovata un’altra.

Ma la vita continua, le cose cambiano e ora Michiko sarà una buona moglie, nessun dubbio. L’ultima bevuta di sakè va comunque fatta dopo la cerimonia, una sosta a casa di Horie è d’obbligo.

Tutto come sempre, si beve, si fuma, si gioca. Una breve sosta al bar, dove la barista ha una vaga somiglianza con la moglie morta, poi Hirayama torna a casa, ormai strafatto. Ma stavolta la sbornia è contenuta e pensosa, non sempre il gusto del sakè è così frizzante.
“Siamo soli”, questo è tutto quel che l’uomo riesce a dirsi mentre si versa qualcosa nel bicchiere in cucina, quella in fondo al corridoio. Una tisana? dell’acqua? non distinguiamo bene, Ozu è quaggiù, al capo opposto della stanza, con la macchina immobile, impietrita. Che bisogno c’è di muoverla? Inquadratura fissa, occhio che guarda in silenzio, tutto è così come sempre, eternamente uguale, di tanto in tanto un frammento di tempo sembra brillare, ma poi no, era solo il riflesso di una lampada.

Ultimo film di Ozu e poi il silenzio, non più profondo di quello che ha filmato tante volte per il suo cinema, ad ascoltare nel tempo infinito dopo la vita il canto di Ryōkan, monaco dello zen nel tempio Kōshōji.

Se uno non chiude gli orecchi,
non può udire questa musica silenziosa.

Paola Di Giuseppe
Paola Di Giuseppe
Paola di Giuseppe ha compiuto studi classici e si occupa di cinema scrivendo per questo e altri siti on line.

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