domenica, Dicembre 22, 2024

Le sorelle Munekata di Ozu Yasujiro

Vedere Munekata kyoudai (Le sorelle Munekata) del ’50 dopo Banshun (Tarda primavera) girato l’anno prima e, soprattutto, dopo i capolavori degli anni cinquanta (Viaggio a Tokyo in vetta), rischia di creare qualche perplessità, ci si chiede come mai non avvertiamo quella straordinaria compattezza di stile, quel magnifico retrogusto che sempre un film di Ozu lascia, rarefatta sintesi di immagini e parole, emozioni trasmesse nel silenzio e per brevissimi istanti, uno sguardo, un gesto, ma tali da segnare impronte vivissime nella memoria.

La storia delle due sorelle, Setsuko e Mariko, trasferite nella città del padre (Kyoto) per essergli vicine nella malattia, appartiene al repertorio tipico di Ozu, che stavolta trae spunto da un romanzo di Jiro Osaragi. Con l’inseparabile Kogo Noda stende una sceneggiatura molto elegante e attenta alla cura del dettaglio, parti assegnate con scrupolosa valutazione delle risorse degli attori, tecniche di ripresa e scelte di montaggio collaudate da decenni e, anzi, perfezionate dopo il definitivo passaggio al sonoro.

Eppure avvertiamo un regista che non gira in stato di grazia. Sembra infatti che della de-spettacolarizzazione non stia facendo il suo credo fondamentale, la scena degli schiaffi del marito alla moglie è di un realismo decisamente lontano dai suoi modi, come l’urlo di Mariko nel trovare il cognato steso a terra morto.
Qualche ricerca c’informa che si tratta di un film girato su commissione per la Shin Toho, non l’eterna Shochiku che ormai per Ozu era una seconda casa, e senza gran parte del fidato cast.

Di questo film non fa menzione neppure l’ insostituibile rassegna di Donald Richie sul cinema giapponese fino agli anni cinquanta. Dunque tutto si spiega, altri tempi e altre costrizioni. Lo stesso Kurosawa fu costretto  più a volte a piegarsi di fronte a pressioni difficili da ignorare da parte di case di produzione o addirittura apparati di governo in vena di controllo censorio sulla cultura!

Cerchiamo allora di ritrovare il vero Ozu fra le pieghe di un lavoro che resta, in ogni caso, di sicuro valore, documento di un momento del cinema giapponese importante per capirne gli sviluppi successivi.
Si tratta, infatti, di una filmografia i cui autori (fatta eccezione per i capiscuola) sono in gran parte sconosciuti fuori dai propri confini.

Il capitolo in cui Richie fa un’ampia disamina di quel periodo è il decimo, Adattamento e atmosfera, 1949/1954, in cui descrive gli anni del  clima post-bellico, quello che dettò i capolavori di Kurosawa, Mizoguchi e Ozu, ma fece fiorire anche tante voci minori che contribuirono a fare del cinema il rispecchiamento di un tempo di enorme difficoltà per una cultura, come quella giapponese, molto più penalizzata dell’occidente dalla rottura dell’equilibrio fra tradizione e innovazione. La tragica storia del paese trovò proprio nel cinema una testimonianza ineguagliabile, riflessa in storie individuali che ogni autore interpretò con le ragioni e i modi della sua poetica.

Anche in Munekata kyoudai i disastri della guerra hanno lasciato tracce, e sono le difficoltà economiche in cui si dibattono alcuni protagonisti, come Setsuko, donna di stampo antico, plasmata da Ozu ad immagine e somiglianza della sua grande musa, Setsuko Hara.

Setsuko ha un bar che sta andando in malora, dovrà chiuderlo se non trova un finanziamento. Con il suo quadernino la sorprendiamo a far conti sul bancone, ma la tristezza non le impedisce di sorridere al vecchio padre malato (Ryū Chishū), uomo tranquillo anche se ben consapevole di star morendo.
Al malinconico scenario si aggiunge il matrimonio con Mimura, un legame logorato dallo stato depressivo dell’uomo indotto dalla condizione di ex ingegnere, disoccupato e senza prospettive, in un paese ormai in ginocchio. Divenuto ombroso e violento, è geloso più per mancanza di autostima che per reale amore verso la moglie.

Setsuko ha quell’eroica capacità di sopportazione che mai viene meno alle donne di Ozu, sostenute da una ferrea disciplina interiore che si traduce in forza per capire il mondo, gentilezza di modi e dirittura morale.
Mariko è la sorellina giovane, trasgressiva e un po’ incosciente, com’è giusto per chi interpreta quel modo simpaticamente sfrontato e privo di inibizioni della gioventù di ogni tempo e paese.

Nella sua fresca spontaneità di ragazzina non sopporta il cognato e si è messa in mente di ricucire il rapporto fra la sorella e un vecchio fidanzato, convinta a ragione, anche perché ha letto il diario di Setsuko, che fra i due l’antico amore non sia mai morto. Destino dei diari, pare che anche il marito Mimura non si sia astenuto da tale lettura!

Il gap generazionale fra le due sorelle è però forte, la più grande sempre in kimono, l’altra in bei tailleurini di taglio occidentale, una che ama Kyoto e l’altra Tokyo, Setsuko felice in giro per musei e giardini e l’altra che vi si annoia non poco, fuma, non disdegna una bevutina e infine tratta il povero Hiroshi, l’ ex della sorella, come una pedina nelle sue mani.

Hiroshi è bello, ricco, vive a Kobe, capitale degli affari, si è formato in Francia, insomma ha tutto per sostituire il depresso Mimura che vive solo per i suoi gatti. E, cosa che più conta, pare che Setsuko gli sia rimasta nel cuore.
Tutto questo garbuglio non da poco, più il finale che scombussola tutte le carte e non va raccontato perché punta molto sulla sorpresa, si avviluppa a volte in una forma melodrammatica e in qualche didascalismo di troppo di cui Ozu non ha proprio bisogno.

E allora non resta che non farci caso, è una patina di superficie sotto la quale c’è sempre il suo grande cinema, i suoi treni che passano, quei piani di transizione affidati a scenari urbani di desolazione controllata, dove possono convivere i templi di Kyoto e le ciminiere di Tokyo, quel procedere del suo cinema all’unisono col ritmo della vita, che non è un film, ma che lui fa diventare un film.

E, soprattutto, c’è quel sereno pensiero della morte, compagna costante della vita, a cui Ryū Chishū dà il volto perfetto, quello che Ozu ha sempre dato alla morte.

Paola Di Giuseppe
Paola Di Giuseppe
Paola di Giuseppe ha compiuto studi classici e si occupa di cinema scrivendo per questo e altri siti on line.

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