Nel 1932, anno di Sono nato ma … , lo shomin-geki ha già sette anni di vita. Filone cinematografico molto amato dai giapponesi, decretò la morte definitiva del genere melodrammatico in auge fino ad allora e venne inaugurato nel ’25 da Shimazu Uno con film sulla classe media, gente comune, piccola borghesia protagonista di tranche de vie molto normali. La sensazione che dovevano suscitare quelle vicende tenute al calor medio era che “…si stesse guardando dal buco della serratura un’autentica vicenda di vita” (J.L.Anderson –D.Richie, Il cinema giapponese, ed.Feltrinelli, 1961, p. 51). Nomi come Naruse e Gosho arricchirono il genere portandolo a compiutezza, mentre l’avvento del sonoro servì ad accentuarne i caratteri comici.
Questo retroterra è l’humus in cui si formò Ozu, insieme ad una breve frequentazione del filone dell’assurdo, emanazione dello shomin-geki in chiave più frivola con qualche componente sessuale (ricordiamo, fra i pochi da lui girati, Erogami no Onryo, Lo spirito vendicativo di Eros). Fu però soprattutto il grande cinema di Chaplin ad influenzare il cinema giapponese del momento e ad indicare la strada di una comicità che facesse ridere e piangere insieme. Singolare coincidenza, il ’32 è l’anno del viaggio di Chaplin in Giappone, con la nazione in delirio per lui, e Ozu sta girando Sono nato ma… Se La moglie di quella notte del ’30 e Una donna di Tokyo del ‘33 contenevano ancora elementi tipici del melodramma per via di intrecci fra noir (il primo) e dramma psicologico a sfondo sociale (il secondo), è in Sono nato, ma… che Ozu comincia a distillare gli stilemi di un linguaggio del tutto nuovo a cui resterà fedele fino all’ultimo film. Nel ’32 il regista aveva già un lungo apprendistato alle spalle anche come assistente delle slapstick comedy di Gosho, e il magistero di Chaplin, unito a quel tratto inconfondibile che Richie definisce mono no aware e Tamako Niwa traduce con “tristezza simpatetica”, danno vita ad un muto di rara bellezza, che s’inserisce nella grande tradizione mondiale con una variante umoristica di tono del tutto personale.
“Ozu traeva il suo umorismo dalla vita quotidiana – aggiunge Richie – e i suoi film non puntavano sulle capacità di un attore ma sull’inconscia comicità delle persone normali, colte, senza che se ne rendessero conto, dalla macchina da presa”.
Siamo dunque alle radici di un versante dello shomin-geki da cui Ozu non si discosterà fino alla fine, piuttosto lo farà evolvere dalla leggerezza tipica delle prime commedie a quella “rassegnata tristezza” che appartiene ai tredici film del dopoguerra. Come in tutti i suoi film, anche qui “… l’intero mondo è compreso in un’unica famiglia. I confini della Terra non si trovano molto più in là delle pareti domestiche”. (J.L.Anderson- D.Richie, cit, p. 51).
Due fratellini, otto e dieci anni, vivono la loro infanzia (scuola, compagni, vita col padre e con la madre) misurando il mondo con occhi di bambino. Il padre è figura di riferimento, severa e comprensiva in giusta misura, a lui idealmente si affidano per cercare protezione contro i compagni schierati intorno al leader bulletto (un piccolo mastino alto tutta la testa più del gruppo) che li ha presi di mira, anche se per le soluzioni pratiche di problemi come marinare la scuola o trovare alleati più alti e muscolosi del bulletto, sanno trovare da soli le risorse giuste. La madre è una figura silenziosa e mite, rammenda, cucina e osserva. Sarà determinante il suo contributo nel breve dramma familiare che sta per scatenarsi. La scoperta, avvenuta per caso, di quella maschera di servile ossequio che il padre indossa davanti al ricco datore di lavoro e le immagini di un filmino casalingo in cui i figli lo vedono far boccacce e ridicoleggiare per far divertire gli amici del boss, sono insopportabili per i due bambini. Scappano via indignati e si ergono a drastici censori del padre, ingaggiando perfino uno sciopero della fame (anche se di breve durata) perché il padre si giustifica dicendo che fa quello che fa per il loro futuro e per dar da mangiare alla famiglia.Bene, e loro decidono di non mangiare più entrando in sciopero della fame. Alla fine, anche per i buoni uffici della madre, tornerà il sereno e, soprattutto, potranno mangiare gli appetitosi panini che lei ha preparato paziente, mentre cercava di mediare fra le parti.
Storia senza tempo nè confini, è costruita con mezzi quasi esclusivamente visivi fino al momento in cui si scontrano progetti educativi e realtà effettuale. A questo punto le didascalie aumentano per spiegare i punti di vista divergenti e, alla fin fine, felicemente compatibili (nella versione registrata da RAI 3 sono lette da una voce esterna, l’accompagnamento musicale è originale e ci si può illudere di essere in una sala della Tokyo di allora, con il benshi che spiegava le immagini sullo schermo).
Il conflitto generazionale c’è, anche se in embrione, si profilano tempi duri per genitori e figli, la critica sociale è sottesa nel rilievo dato al manifestarsi fin dall’infanzia di distinzioni di classe (ma al figlio del padrone alla fine sarà data una lezione), la prepotenza dei coetanei con cui si scontra una realtà infantile a torto considerata felice e spensierata dà vita a belle gag e costringe a riflettere. L’impatto dell’innocenza infantile con mali sociali come compromissione e arroganza del potere è il tema forte, e pur se risolto con la mdp ad altezza di bambino non è meno odioso per questo. L’intero repertorio di una condizione umana presa nel suo manifestarsi quotidiano dà spessore ad un mondo per cui Ozu non confeziona soluzioni drammaturgiche né intrecci a tesi. Brevità, asciuttezza e sobrietà sono il suo credo, un pizzico di humor per dar leggerezza all’insieme, e su questi parametri si muove.
“Voglio ritrarre il carattere di un uomo eliminando tutti gli espedienti drammaturgici, voglio far sentire alla gente cos’è la vita senza necessariamente servirmi delle peripezie del dramma” (in Ozu on Ozu: The Talkies, in Cinema, 6, 1971, p. 5).
Questo processo di rarefazione che investe tecnica di ripresa e sceneggiatura, soluzioni di regia e recitazione dei personaggi (anche un’intera giornata per girare una sola scena) qui è già tutto in fieri, ma con un valore aggiunto, l’umorismo, tocco che pian piano si andrà riducendo nei film successivi, pur non scomparendo mai del tutto. La gestualità dei due bambini, simpaticamente simmetrica, all’unisono, complice ed esilarante in tante occasioni, le loro marachelle, le trame del gruppetto di amici che scorrazzano in giro con i loro codici d’onore, quei piccoli particolari fatti di niente che catturano la mdp come un lampo che subito si dissolve, ma la traccia resta, evanescente, nell’aria (un treno che passa, un porta-aghi su cui lo sguardo si posa come incantato), tutto collabora a fare di Sono nato, ma… il gioiello di una cinematografia che cominciava a segnare le sue tappe in ascesa.
Ozu ha 29 anni e già un’esperienza importante alle spalle, il cinema giapponese pre-bellico fu molto aperto all’apporto delle nuove generazioni, allora ricche di tante idee ma spesso povere di mezzi, fatte di giovani innovativi, geniali, spesso rivoluzionari. Quel cinema ha aperto la strada a molti, e fra tanti Ozu resterà un caso unico, un’esperienza artistica che va oltre l’arte stessa, un percorso di perfezionamento sulla via dello zen attraverso 54 film in 35 anni.
Il cinema di Ozu è rito e traduzione cinematografica di una concezione di vita, il suo è quello che Schrader chiama “stile trascendentale” nella sua analisi della triade Ozu/Dreyer/Bresson.
Sono nato ma… si distingue ancora per altro nella filmografia dell’autore, ed è per quel sorriso ancora giovane, quel perdersi divertito nel registrare le gesta dei due monelli in uno stato di grazia destinato in gran parte a svanire negli anni successivi.Impossibile allora non pensare, per contrasto, all’ultima inquadratura dell’ultimo film del regista, trent’anni dopo, una storia che si chiude con Il gusto del saké del 1962.
Chishū Ryū è il padre, come in quasi tutti i suoi film.Tutto è già accaduto, la figlia è andata sposa e l’ultimo sakè con gli amici è stato bevuto.Solo, in fondo al corridoio, si versa lentamente da bere in cucina mentre salgono i primi ideogrammi di coda e “la quotidianità celebra la pura superficie dell’esistenza, quei banali avvenimenti che separano il vivo dal morto, la natura in movimento dalla materia inerte.
La quotidianità costruisce con cura il fantoccio della realtà di tutti i giorni, l’illusione che la montagna è solo una montagna, materialmente, in modo che questo possa poi essere abbattuto.” (P.Schrader, cit., p.34).