Akibiyori, 1960, è la risposta al femminile di Tarda primavera, 1949, tanta strada è stata consumata e su Akiko (Setsuko Hara), lì figlia, qui madre, si è depositato quel velo sottile del tempo che fa dire di una donna, un giorno splendida, “è ancora una bella donna”.
I tre attempati ma ancora arzilli sararymen in pensione, da sempre innamorati di lei (giovanotti, un tempo, andavano nella sua farmacia a comprar cerotti e aspirine pur di vederla) di fronte alla sua sorridente gentilezza cadono in adorazione, ma mogli molto simpatiche e ironiche li riportano ogni volta alla realtà.
Alla bella e ormai matura Akiko è morto il marito, il signor Miwa, unico amore della sua vita, quello che, a suo tempo, riuscì in un soffio a portarsela via sul suo cavallo bianco.
Le resta Ayako, bellissima figlia in età da marito, che i tre buoni amici di Miwa, i signori Mamiya, Tayuchi e Hirayama, hanno deciso di far sposare. E’ ormai ora, nella loro concezione di vita non c’è spazio per una riconsiderazione delle tradizioni di fronte ai cambiamenti epocali, alle nuove generazioni senza kimono, alle scelte alternative di vita per cui amore e matrimonio non sono necessariamente l’uno il derivato dell’altro, e comunque, se proprio bisogna sposarsi, è necessario che coincidano.
Ayako per loro è come una figlia adottiva a cui un gran valore aggiunto è dato da Akiko, sogno impossibile ma sempre vivo nei loro cuori. E allora, se Ayako recalcitra perché non vuol lasciare sola la madre (sull’altro motivo, sintetizzato in “non me ne importa niente di sposarmi”, glissano volentieri) allora trameranno per far risposare la bella vedova e sistemare le due donne in un sol colpo. Una donna sola è per loro assolutamente inconcepibile.
Ma sposarla con chi? Con Hirayama, naturalmente, l’unico vedovo del trio (con somma invidia degli altri due che vorrebbero volentieri essere vedovi anche loro). Purtroppo però hanno fatto i conti senza l’oste, anzi l’ostessa. Akiko non ci pensa proprio a rimaritarsi, e quando Tayuchi va a sondare il terreno, lei non fa che parlargli del suo amato Miwa e piangere calde lacrime: Non sai com’era bella mentre piangeva – racconta Tayuchi agli altri due, reduce dalla missione pronuba a favore di Hirayama –…e poi, mi ha sbucciato una mela con quelle mani bianche…
E tu l’hai mangiata?- fa Mamiya con invidia malcelata.
Certo, e poi mi ha regalato una pipa di Miwa…
Comunque sia, travolto da tanto fascino, Tayuchi non è riuscito a compiere la missione e a fare la proposta di matrimonio con il nome di Hirayama.
Bisogna dire che i tre amiconi, sarà il gran bere sakè, birra e whisky (ragion per cui Hirayama sarà spesso costretto a correre in bagno), sarà una naturale goffaggine in traffici di questo genere, la combinano grossa facendo intrecciare le vicende al punto che tutti, tranne Akiko, vengono a sapere di un suo matrimonio prossimo venturo con Hirayama.
Gossip di cui non si capisce bene quale sia la fonte, ma si sa, la commedia degli equivoci si regge proprio sulla fuga di notizie che crescono, s’ingrossano, passano di bocca in bocca finchè … come un colpo di cannone arrivano ad Ayako.
Apriti cielo! La ragazza, sempre carina e sorridente come la madre, di colpo sbianca e affronta la povera Akiko ignara.
L’accusa di tradire lei, la memoria del padre, l’intero orbe terraqueo delle tradizioni più sacre e litiga pure con l’amica Yuriko che, forse più sveglia di lei, forse perché abituata a lavorare nel bar di famiglia e a veder passare gente di tutte le risme, ha un rapporto con la realtà molto più pratico e non vede nulla di male in tutto quello che sta succedendo.
Comunque sia, da brava ragazza del popolo senza tanti grilli per la testa (tranne un delizioso cappellino verde smeraldo che indosserà al matrimonio di Ayako da far invidia alla regina Elisabetta) vestita di tutto punto in tailleurino da donna in carriera, va a fare una bella scenata ai tre farlocconi che le chiederanno scusa per essersi mossi così male, traditi dalle loro buone intenzioni.
Finalmente, come in ogni commedia che si rispetti, tutto torna a posto, Akiko convincerà la figlia a sposare Goto, di cui si è finalmente innamorata, le dirà che preferisce restar sola, ce la farà, ciò che conta è che lei sia felice e viva il suo lungo futuro. Il ricordo del marito è quel che le basta.
Il coro di una scolaresca in gita scolastica fa da sonoro al loro viaggio, l’ultimo da sole, per andare a trovare lo zio (Chishū Ryū, sempre magnetico) mentre una montagna gonfia di vegetazione si specchia nel lago che si vede fuori della finestra dell’Hotel.
Poi il matrimonio e Ayako finalmente in kimono, straordinariamente simile a Noriko di Tarda primavera.
Foto degli sposi, una bella bevuta di saké dei tre amici per commentare la giornata, poi Ozu farà come sempre il suo giro nelle stanze vuote fino alla scena finale, quella in cui tutto il film si raccoglie come nell’ultimo verso di un haiku.
Per un intero minuto, forse più, Ozu guarda Akiko piegare la vestaglia con gesti lenti e s’incanta sul suo viso sereno e malinconico, poi trasferisce la macchina sul pianerottolo del palazzo e stacca la corrente.
La gente si complica la vita, ma la vita è sorprendentemente semplice, ha fatto dire a qualcuno, nel film.