Una trama minimale, quella di Tokyo no onna (Una donna di Tokyo), mediometraggio di 47 minuti che i titoli di testa dicono tratto da Sedici ore, un dramma di Ernst Schwarz, autore austriaco non altrimenti noto, invenzione di Ozu in vena di scherzi che ne è invece l’autore insieme al suo unico, fedelissimo sceneggiatore, Kogo Noda.
Sedici ore, in effetti, è la durata degli eventi, dal momento in cui Ryoichi esce di casa, il mattino, per andare all’Università, al punto indistinto della notte in cui appare nell’ultimo primo piano, prima del suicidio che non vediamo. Le sequenze successive, brevissime, appartengono all’intreccio e si articolano sui due temi del film: le due donne (il sacrificio dell’una e il pianto dell’altra nel silenzio che le avvolge) e la rumorosa presenza di giornalisti in cerca di scoop, misti ad un campionario di varia umanità maschile fatta di capufficio, poliziotto, cliente della prostituta, personaggi appena abbozzati sullo sfondo o, come i due fratelli, spesso ripresi di spalle o di profilo, al negativo, per dare il giusto risalto alle due sorelle, presenze dolenti e luminose, anticipatrici delle grandi figure femminili di Mizoguchi.
La storia ruota intorno a due coppie di fratelli, Chikako e Ryoichi, protagonisti, e Harue, fidanzata di Ryoichi e Kinoshita, suo fratello, che lavora in polizia. Chikako, la sorella maggiore, fa la dattilografa e paga gli studi universitari al fratello prostituendosi segretamente in un locale notturno la sera. A tutti fa credere di andare da un professore universitario per aiutarlo nelle traduzioni, dopo il lavoro.
La scoperta della verità sarà insopportabile per il fratello, che sceglierà il suicidio. Una storia molto simile a Yogoto no yume (Sogni di una notte) di Naruse Mikio, autore da riscoprire, a cui la casa di produzione Shochiku riservò un trattamento fin troppo duro dicendogli che non aveva bisogno di due Ozu.
All’epoca lo shomin-geki, film riguardanti la vita della gente comune con forte attenzione al mondo delle donne era un genere molto diffuso, e sullo sfondo della grave recessione economica l’istanza sociale si coniugava perfettamente con uno sguardo nuovo sulla donna che ne era la prima vittima. Dieci anni dopo anche Kurosawa, alle sue prime prove, lasciò un tributo al genere con Ichiban utsukushiku (Lo spirito più elevato) con ragazze/operaie che esprimono il senso della comunità e del sacrificio in una resistenza eroica contro tempo e stanchezza.
Ozu girò il film in otto giorni su pressione della casa di produzione che aveva bisogno di riempire un buco nella programmazione, e fu costretto anche ad eliminare dal copione il tema politico più esplicito (la protagonista che raccoglie fondi per il Partito Comunista, oltre che per sue necessità famigliari) ma l’arte può far meglio della propaganda e la forte carica eversiva del tema politico soggiacente alla vicenda privata emerge ancora più dirompente. In quest’ottica, dunque, è chiaro il senso della sequenza centrale. Ryo e Harue sono al cinema e passa sullo schermo una citazione da If I Had a Million (1932) di Lubitsch, con Charles Laughton, perfetto sararyman, che sale le scale e attraversa una dopo l’altra le stanze del potere aziendale. (“Lo spettro del capitalismo si aggira sulla scena di questo film sorprendente” commenta Ghezzi)
Ozu interrompe la scena a metà, sa che conosciamo bene il finale, con quella solenne pernacchia di Laughton in faccia al capo, ma immaginarla funziona meglio che rivederla per l’ennesima volta, e così Ozu taglia.
Storia di prostituzione, di vendita e di sfruttamento, Tokyo no onna non ha però il lieto fine di Lubitsch.
Qui si muore, e Chikako, che ha accettato senza drammi le regole del gioco e il suo ruolo di donna, dando tutto di sè perché il fratello tanto amato abbia il suo posto nel mondo, esclama delusa e rabbiosa dopo il suo suicidio: “Non mi hai capita fino alla fine. Morire per una cosa del genere … che vigliacco!“.
Il sacrificio femminile e l’incapacità dell’uomo di capirlo, di misurarne la portata sottraendosi ad un sistema di regole e pregiudizi che bolla come “pericolo pubblico” la prostituta e non il suo cliente, è quel che a Ozu preme mettere in primo piano. Una società disposta a tollerare un sistema classista e ingiusto, che non garantisce il diritto allo studio e alle libertà individuali, mentre bolla l’umile, silenziosa rivolta di una donna dotata di spirito di sacrificio e molto senso pratico, è il focus di un film in cui Ozu porta a maturazione le tecniche introdotte in Sonoyo no tsuma (La moglie di quella notte) del 1930 e le modalità espressive che segneranno tutta la sua storia artistica.
Distribuzione geometrica di pieni e vuoti, oggetti di vita quotidiana in primo piano che cristallizzano il movimento relegando sullo sfondo figure sfocate, macchina fissa “ad altezza di tatami” e rarissimi carrelli fra cui i due bellissimi, laterali, che s’incrociano in direzioni opposte seguendo Ryo che cammina disperato nella notte. Il primo inquadra i piedi e risale poi pian piano verso l’alto; l’altro scorre a ritroso lungo la stessa strada, ormai vuota. Tra i due momenti scorre la morte.
Il repertorio espressivo del regista c’è ormai tutto, la distillazione dei mezzi stilistici è assolutamente perfetta. Isolamento sociale (l’appartamento chiude i due fratelli in una sorta di spazio indipendente, fuori da ogni comunicazione con l’esterno), precarietà di vite che Ozu ci mostra con tagli di sobrietà estrema (orologi a pendolo che segnano un’ora ormai scaduta sono appesi in gran numero nella stanza del telefono da cui si apprende del suicidio), irruzione della realtà esterna attraverso i personaggi di Harue, che rivela a Ryo l’attività di Chikako e dei due giornalisti che scherzano, indifferenti alla tragedia privata, nel finale del film. Sembra impossibile contenere tutto questo in 47 minuti di un film muto, eppure accade e continua a sorprenderci la capacità di questo “genio della trasparenza” di dire tutto con piccole cose così quotidiane. Un balconcino che si affaccia su un comignolo che fuma e un alberello scheletrito sono lo sguardo di Chikako che, fiera e serena, raccoglie i calzini stesi ad asciugare per il fratello all’inizio del film.
Lo stesso quadretto, alla fine, non riusciremo a guardarlo nello stesso modo.