domenica, Dicembre 22, 2024

Una locanda di Tokyo di Ozu Yasujiro

Capriccio passeggero del ’33, Storia di erbe fluttuanti del ‘34, Una ragazza innocente (perduto) e Una locanda di Tokyo del ’35 sono i quattro titoli del ciclo Kihachi-mono, da Kihachi, il protagonista interpretato da Sakamoto Takeshi, uno degli attori-simbolo di quella che Schrader chiama “ la famiglia cinematografica ” di Ozu.

Il filone dello shomin-geki, storie di gente comune di piccola e media borghesia a cui Ozu restò fedele fino alla fine, in questo breve polittico ha una caratterizzazione sottoproletaria non frequente nel suo cinema prebellico e in seguito del tutto abbandonata.
Otto anni da cineasta e forse trenta film (in gran parte perduti) precedono questo piccolo ciclo, un tirocinio non da poco e una volontà di insistere con il cinema muto fino al limite estremo, fino a quando, cioè, il fido collaboratore Mohara Hideo elaborò quel Mohara Sound System che gli fornì precise garanzie di passaggio indolore e assolutamente senza scosse al sonoro (va comunque ricordato che per la realizzazione di questo film Ozu ebbe notevoli difficoltà, poiché la Shochiku stava smantellando gli studi di Ofuna, inadatti a girare col sonoro).

Sakamoto Takeshi si cala qui in un personaggio molto diverso dal picaro mattacchione dei primi due film, il mobile e guizzante capocomico di una compagnia di teatranti in fallimento di Storia di erbe fluttuanti, o lo spiantato “ fricchettone ” ante litteram con figlio a carico in Capriccio passeggero.
Ora è un operaio disoccupato e padre di due figli, abbandonato dalla moglie, senza tetto né denaro, che vaga con i bambini per la periferia di Shitamachi, a Tokyo, in cerca di lavoro.
Ma il lavoro manca, siamo in tempi di grande depressione, il guardiano della fabbrica a cui si rivolge non alza neppure gli occhi dal giornale per rispondergli “ no ”, e allora non resta che catturare cani randagi, il comune li paga 40 yen l’uno, quei soldi serviranno per mangiare e pagare la notte alla locanda.
Se però i due ragazzini, nella loro beata incoscienza, li spenderanno per un bel cappello da marinaio (la passione dei bambini giapponesi per quel berretto tornerà a stupirci e intenerirci in Ponyo sulla scogliera di Miyazaki) bisognerà scegliere se mangiare o dormire al coperto nella locanda con il poco che resta. Naturalmente i tre sceglieranno di mangiare, senza fare i conti con la pioggia che comincerà a venir giù senza pietà.
La situazione è questa fino a circa metà film, poi evolverà, migliorando per qualche giorno la vita ai tre derelitti, entreranno in scena due donne e una bambina, ma ben presto tutto tornerà a precipitare di nuovo, l’evento risolutore c’è stato ma non ha modificato in modo significativo le cose, e si arriva così al finale che, come nei film di Ozu, lascia immutate le condizioni di partenza, ora diverse solo in superficie.

Di vite ai margini si occupava molto il cinema giapponese in quegli anni, le case di produzione premevano per soggetti sentimentali e sociali, ma in Ozu non è la denuncia sociale a contare, almeno non in prima istanza.
Pur avvertendo forte l’impellenza dei problemi di un Giappone investito da svolte epocali senza precedenti, Ozu può decidere di tingere di profonda tristezza alcuni scenari con lo stesso grado di formalizzazione stilistica con cui, in altri momenti, dà vita a gustosi quadri di raffinato umorismo.
Possono addirittura coesistere, all’interno di una stessa sequenza, dissonanze difficili da gestire per altri e che in lui si collocano invece con coerenza inappuntabile entro quella sintassi narrativa di cui Donald Richie (Yasujiro Ozu:The Sintax of His Films, in “Film Quarterly, 17, 1963-64) rintraccia le linee di fondo e gli elementi caratterizzanti.
Quel “ rigore ascetico”, quella “tendenza alla brevità e all’asciuttezza” e infine quell’ “ aspirazione alla massima sobrietà ” che il critico sottolinea parlando della produzione post-bellica di Ozu, sono componenti di uno stile che, nel passaggio dal muto al sonoro, (Una locanda di Tokyo è il film dell’abbandono del muto, L’università è un bel posto (perduto) e Figlio unico del ’36 i primi del nuovo corso) non subisce modifiche, e come per le storie raccontate “ la ripetizione è preferita alla varietà “, così il modo per raccontarle, dal primo all’ultimo film, ha certo vissuto un processo di rarefazione delle tecniche e una decantazione sempre più accentuata delle trame, ma nulla che possa far parlare di evoluzione, maturazione, cambiamento o crescita.

Ozu è pensiero Zen che diventa per la prima volta cinema, l’analisi che egli fa del microcosmo della famiglia, anche quando si allarga a comprendere parti del mondo esterno, altro non è che l’analisi del rapporto uomo-natura, centrale in quel pensiero e presente in lui fin dal primo film.
Valgono molto, per capire, le puntuali analisi di Paul Schrader in Trascendental Style in Film:

“ Il più grande conflitto (e, di conseguenza, il più grande motivo di delusione) nei film di Ozu non è politico, psicologico o familiare, ma, in mancanza di un termine migliore, “ambientale”.
Che i vecchi non riescano a comunicare con i giovani, i genitori con i figli e gli artigiani con gli impiegati sono le diverse facce della difficoltà del giapponese di entrare a contatto con il proprio ambiente […].
In tutti i suoi film c’è una corrente sotterranea di partecipazione emotiva che, sebbene non espressa apertamente, sembra insita nei rapporti tra i personaggi e, soprattutto, tra i personaggi e il regista.
Lo spettatore avverte la presenza di queste emozioni profonde, sepolte appena sotto la superficie.
Di solito questo “senso” di compassione non è per niente evidente, non traspare nel dialogo né nel montaggio, ma è una questione di sfumature nelle inquadrature […] Nel rigido contesto della quotidianità Ozu produce un lampo di intensità umana ”.

Osserviamo Kihachi: è un personaggio pieno di difetti, depresso e incapace di dare una svolta alle loro vite che non sia affidata al caso. Appena guadagna qualcosa la spende per ubriacarsi e andare a donne, ma poi, di colpo, si lancia in gesti tanto generosi quanto inopportuni (come l’aiuto alla vedova con bambina) che creano altri problemi perché la proprietaria della locanda che l’ha aiutato non può farsi carico anche di loro e lui non ha nessuna possibilità di mantenerle.
Per salvare la bambina malata Kihachi imbocca addirittura la strada peggiore, come al solito agisce senza valutare le conseguenze, le sue contraddizioni esplodono perché così vuole il regista. Questo è l’uomo, sembra dirci, questa è la sua continua oscillazione fra i poli positivo e negativo, e il paradigma cinema le svela, amplificandole, mentre la vita le nasconde, mimetizzandole.

Nella scena finale, ripreso di spalle, Kihachi si allontana, giacca in spalla, sguardo triste ma anche quasi stupito, si gira un attimo a guardare dove resteranno i figli, affidati alla locandiera, e sparisce nel rettangolo di luce fra i due enormi silos. Oltre ci sarà una stazione di polizia o, forse, una fuga per altri vagabondaggi, è in gioco l’ambiguità dei personaggi di Ozu, che poi è la stessa di Ozu nei loro riguardi.

Continua infatti Schrader:
Ozu suscita sentimenti di comprensione e allo stesso tempo di derisione nei confronti dei suoi personaggi. Perfino quando li prende in giro in modo scoperto chiede per loro un senso di comprensione. La sua impassibile cinepresa colpisce lo spettatore per l’imparzialità, per la determinazione nell’osservare ogni aspetto del comportamento umano, dai più grotteschi ai più nobili, senza alcun commento. Il regista sembra provare compassione per i suoi personaggi, rispetta pure i loro sentimenti più fatui, e, nonostante ciò, continua a sembrare un osservatore obiettivo.
I personaggi sembrano degli automi, ma ogni tanto paiono anche capaci di gesti umani spontanei.[…]
Nei film di stile trascendentale l’ironia è lo strumento di cui si serve Ozu per sopravvivere in un mondo schizofrenico [ …]
I personaggi principali assumono un atteggiamento di distaccata consapevolezza, trovano il lato comico di ogni situazione, non pronunciano un giudizio serio su niente, affrontano insomma la vita con ironia e subiscono l’ironia del regista”.

Solo nell’osservare il candore dei bambini c’è per Ozu il momento del sorriso spensierato, in gran misura perduto nei film successivi.
Quando Kihachi e Otaka, la vedova, guardano i figli giocare confessano di desiderare essere di nuovo bambini. E’ allora che Ozu s’incanta a guardare e nascono alcune delle scene più belle del cinema di tutti i tempi come, qui, quella del figlioletto maggiore che finge di avere una bottiglietta di sakè e, per consolarlo, ne versa il contenuto al padre che sta al gioco, perchè è più bambino del figlio. E ancora il litigio dei due fratellini su chi debba portare la sacca e così la sacca resta per strada e qualcuno la ruba. Sembra impossibile che dalla stessa miseria, in due opposti emisferi, sia stata connaturata in due geni, Chaplin e Ozu, la stessa leggerezza capace di far oscillare lievi al vento i fili d’erba di una polverosa periferia come se fossero preziose piante di serra. Eppure così è stato.

Paola Di Giuseppe
Paola Di Giuseppe
Paola di Giuseppe ha compiuto studi classici e si occupa di cinema scrivendo per questo e altri siti on line.

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