In cinque anni, quelli che passano da Hunger (2008) a 12 Years a Slave (2013), Steve McQueen si e’ conquistato un posto d’onore sui red carpet di mezzo mondo e una solida fama di cineasta raffinato, attento ai problemi sociali e influenzato da esperienze artistiche che vanno dalla Pop Art alla Nouvelle Vague. Inglese con origini caraibiche, McQueen ha intersecato il cinema con la pittura, la scultura e la fotografia. Se l’espressione non suonasse un po’ troppo retorica, lo si potrebbe definire un “artista del dolore”. Nei suoi film, la macchina da presa indugia senza remore sulle schiene martoriate dalle frustate degli schiavi neri, sul corpo scarnificato dell’ormai magrissimo Bobby Sands o su quello irrequieto di un newyorchese vittima delle proprie pulsioni. La stessa attenzione, maniacale, per i corpi era presente nei primi cortometraggi, a partire dal lontano Bears (1993), gioco di sguardi fra due uomini nudi. Non e’ compiacimento – forse – ma contemplazione. Il dolore, fisico e mentale, passa attraverso lo schermo e ci colpisce direttamente, senza mediazioni. A volte diventa insopportabile, ci costringe a distogliere lo sguardo. Il confine fra il bene e il male resta saldo, ma la vita e’ comunque una lotta. Furiosa.
In Hunger, l’irlandese Bobby Sands muore di consunzione, dopo 66 giorni di sciopero della fame contro i suoi carcerieri. In Shame, Brandon, dietro lo schermo di un’esistenza di successo, non riesce a interrompere una spirale autodistruttiva che finisce per consumarlo da dentro. In 12 Years a Slave, McQuenn che – per la prima volta da quando gira lungometraggi – si affida a una sceneggiatura altrui (di John Ridley), racconta la storia di un uomo fatto schiavo con l’inganno. Per dodici anni. Siamo nell’America del 1841 quando Salomon Northup (Chiwetel Ejiofor), un free man di colore residente a Saratoga, e’ rapito e venduto a un possidente di New Orleans. Inizia cosi’ una lunga discesa all’inferno che portera’ Salomon, la cui vera identita’ e’ celata sotto il nome fittizio di Platt, all’ultimo gradino della gerarchia sociale, in un crescendo di abusi e umiliazioni. Saranno la sua inflessibile determinazione e l’aiuto insperato di un canadese dalla coscienza limpida a restituirgli il suo nome e la sua storia. Diventera’ un attivista per la liberazione degli schiavi e scrivera’ il libro autobiografico al quale la pellicola e’ ispirata.
In una delle scene piu’ disturbanti del film, Salomon-Platt e’ vittima di un agguato da parte del carpentiere John Tibeats, che non sopporta la nascente amicizia fra lo schiavo e il proprietario della piantagione, William Ford. Dopo un violento diverbio con Salomon, Tibeats e i suoi amici cercano di impiccarlo a un albero. Salomon e’ salvato dal braccio destro del possidente Ford, ma per punizione e’ lasciato per tutto il giorno appeso all’albero, con il collo infilato nel cappio e i piedi che sprofondano nel fango, agitandosi in un balletto disperato, alla ricerca vana di un appiglio piu’ solido. Dopo ore di agonia, una ragazza ha il coraggio di dargli da bere. Intorno a lui gruppi di bambini continuano a giocare indisturbati. La scena ricorda la crocifissione e si prolunga indefinitamente. Sappiamo gia’ che Salomon non morira’ quel giorno. Non c’e’ suspense, non ci sono altre minacce in agguato. C’e’ il dolore fisico e il terrore palpabile di un individuo appeso a un albero. McQueen ci lascia soli, in uno spazio-tempo che diventa via via piu’ labile, di fronte a un uomo che rantola e si contorce per restare in vita. Intorno, una natura oscenamente bella e rigogliosa, che resta incastonata in inquadrature rigorose (lo schermo spesso diviso in due rettangoli paralleli, scanditi dalla linea dei campi di cotone; i primissimi piani che occupano meta’ della scena; la simmetria e l’equilibrio fra presenza umana e paesaggio). I bagliori lividi della prigione di Hunger e della New York minimalista di Shame qui lasciano il posto ai colori fiammeggianti del Sud, fra il bianco dei campi di cotone dove gli schiavi inventano il blues e il rosso dei tramonti, il verde smeraldo degli alberi e l’azzurro intenso del cielo. La natura diventa molto piu’ che mero sfondo delle vicende degli uomini. Come Malick, McQueen si sofferma sull’anatomia di un bruco che sta divorando il cotone, su un fiore che si dischiude, sul succo violaceo dei frutti di bosco. I grandi quadri di insieme (gli schiavi nei campi con la casa colonica sullo sfondo) si alternano ai dettagli dove a emergere e’ la fascinazione per la materia (l’inchiostro, il legno del violino, la carta che brucia nel buio).
Salomon e’, suo malgrado, “quando le circostanze lo consentono”, uno schiavo modello, che finisce per essere odiato da quasi tutti per la sua intelligenza e la sua dignita’ morale. La coscienza malata degli schiavisti non lo perdona. Come Giobbe sopporta tutte le fatiche. Quando il suo campo di cotone e’ devastato dai bruchi, il folle e collerico Edwin Epps (Michael Fassbender, attore feticcio di McQueen, qui nell’insolito ruolo dell’antagonista) decidera’ di essere vittima di una piaga divina e dara’ la colpa ai suoi schiavi, spedendoli in trasferta in una piantagione vicina. La sofferenza personale si trasforma nell’agonia di un intero popolo, mentre il solitario Salomon lentamente, dopo qualche incertezza, aggiunge la propria voce al coro degli schiavi che piangono la morte di un compagno. Il montaggio alternato della prima parte gioca sull’insanabile contrasto fra l’esistenza precedente di Salomon – talentuoso carpentiere e appassionato violinista, borghese che veste come i bianchi e gira libero fra le strade di Saratoga – e la vita miseranda dello schiavo Platt. Drogato dai suoi rapitori, Salomon si ritrova in una specie di carcere. La scoperta della prigionia e’ la danza grottesca di un uomo in catene. Nell’oscurita’ della prigione scorgiamo soltanto la sua tunica bianca che si agita e si contorce.
12 Years a Slave e’ in un certo senso la storia di un’immersione: privato anche del nome, Salomon si appella ostinatamente alla propria differenza, facendo leva, quasi incosciamente, sul medesimo strumento culturale di cui si avvalgono i suoi carcerieri, protestando la propria diversita’ intrinseca rispetto agli altri schiavi (“io sono un uomo libero”, ripete a chi gia’ lo sta vendendo). E’ l’incontro finale con un bianco diverso da tutti gli altri (il canadese Bass, un Brad Pitt buono e barbuto) a sancire uno slittamento di prospettiva che, come una linea sotterranea, pervade tutto il film: e’ l’inganno della differenza naturale fra liberi e schiavi, fra bianchi e neri che consente agli schiavisti di prosperare.
Non tutto scorre perfettamente. Dopo aver concesso tempo in abbandonanza al dipanarsi dei fili narrativi, il finale arriva precipitoso e preconfezionato. Si avverte un po’ di affanno nell’esigenza di coniugare il resoconto realistico di un episodio storico (siamo lontani anni luce dal Django tarantiniano), occupato da svariati caratteri e personaggi (da confrontare con il balletto a due di fratello e sorella in Shame), con le idiosincrasie di un regista cosi’ ingombrante. Il risultato e’ un affresco ibrido, personalissimo e dall’equilibrio altalenante, un oggetto imperfetto e affascinante.