L’area scaligera è una delle mete turistiche più visitate d’Italia. Ogni anno il bellissimo centro storico di Verona, patrimonio Unesco, viene scelto dai turisti di tutto il mondo per avere un prezioso assaggio d’Italia; quel che poi non offre la città, può essere trovato a pochi chilometri di distanza, presso i suggestivi borghi lungo le sponde del lago di Garda, decantate da Goethe nella cronaca del suo Grand tour.
Ma c’è un altro importante luogo che i veronesi amano frequentare, soprattutto quando subentra un desiderio di pace spesso difficilmente appagabile nel caos urbano e lacustre: la corona montuosa dei Lessini.
I Lessini rientrano nella catena delle Prealpi Venete e il territorio della Lessinia è tutelato come Parco Naturale Regionale. Un luogo ricco di storia, cultura e miti, legati alla vivace superstizione sia delle comunità montane che quelle rurali, che amavano raccontare storie per passare il tempo durante la veglia serale, mentre si cercava tepore presso il locale più caldo, di solito la stalla. È così che la fertile fantasia dei contafòle, ovvero coloro che raccontano le favole, ha dato vita ai cosiddetti racconti del filò, tipici del folklore veneto.
La tradizione col tempo è andata scemando, ma in territori come la Lessinia i semi del mito, legato ai misteri delle montagne, dei profondi antri (i covoli) e delle Sfingi rocciose dalle curiose forme, non hanno mai cessato di crescere e affascinare. Non sorprende quindi che sia proprio una delle comunità urbane più popolose dei Monti Lessini, il comune di Bosco Chiesanuova, a fare da cornice ad uno dei festival cinematografici legati al tema della montagna più importanti non solo d’Italia, ma già d’Europa: il Film Festival della Lessinia, concluso la scorsa domenica e arrivato alla sua 23esima edizione sotto la direzione artistica di Alessandro Anderloni, interprete e autore teatrale tra i principali nomi della scena teatrale veronese.
Anderloni, originario di Velo Veronese situato nel cuore della Lessinia, è uno dei principali promotori di questa cultura popolare, che dagli anni ’90 prende vita sul palco della sua compagnia teatrale Le Falìe, il cui obiettivo è proprio quello di portare in scena i racconti autoctoni della sua terra. Il Film Festival da lui diretto, fondato nel 1996 a Cerro Veronese, è di ben più ampio respiro, eppure resta legato ad una concezione mitica, simbolica e sentimentale della montagna: essa non è considerata alla semplice stregua di sito per la pratica dell’alpinismo o di esperienze estreme vissute ad alta quota, come accade in altre rassegne, ma la montagna qui interessa anche in quanto luogo mistico, crogiolo di miti tramandati da generazioni passate e fantasie contemporanee, come quelle raccontate da Buzzati nella sua letteratura surreale.
Lo sguardo è rivolto al cinema di tutto il mondo: i film scelti ci portano in viaggio dalle vette del Sud America fino ai remoti angoli dell’Afghanistan, dalla Cina alle valli del Tirolo. La rassegna vanta il fatto di non considerare confini, presentandosi orgogliosamente quest’anno come esempio di “fuorilegge culturale”. «E se superare i confini, portando di là storie e idee, può andare talvolta contro le leggi che si danno gli uomini, allora questo è un Festival fuorilegge»: queste parole di Anderloni introducono perfettamente lo spirito del festival, che quest’anno dedica uno spazio speciale al tema del banditismo: ci si interroga sulla figura del fuorilegge analizzando la figura letteraria del contrabbandiere Tőnle Bintarn nata dalla penna di Mario Rigoni Stern; ricordando l’attività dei partigiani sul confine delle Alpi; riproponendo il bellissimo Salvatore Giuliano di Rosi e il Brigante di Tacca del Lupo di Germi; percorrendo in cammino le antiche vie del contrabbando a cavallo tra le province di Verona e Trento.
Il Festival è infatti decisamente variegato nella sua proposta, offrendo agli ospiti, oltre naturalmente la visione dei film presso il Teatro Vittoria di Bosco Chiesanuova, la possibilità di fare escursioni nella zona, di partecipare a laboratori speciali anche rivolti al pubblico dei più piccoli (ai quali è dedicata una specifica rassegna di film per l’infanzia), oppure assistere a conferenze dedicate al tema del brigantaggio, ma anche e soprattutto offre la possibilità di ascoltare storie e avventure ambientate in tutto il mondo. Non importa che siano racconti di vette o di pendici.
Infatti questa rassegna, come ricordato dal direttore artistico in più occasioni, non vuole e non deve trattare di alpinismo, quindi di montagne viste come limite da superare, o come sport. Si preferisce qui piuttosto dare importanza alla suggestione del racconto personale, parlare dei molti popoli che vivono nei pressi di queste montagne e delle loro a volte dure, a volte toccanti, a volte divertenti storie, con un occhio sempre attento a cogliere quel lato “magico” di cui si parlava. Non è un caso che il logo storico del Festival rappresenti proprio una creatura mitologica stilizzata, la fata Aissa Maissa legata al folklore delle comunità montane veronesi.
Questa particolare sensibilità si realizza nella scelta di pellicole, di varia lunghezza (molti i cortometraggi in concorso) e natura, in parte legate a una rappresentazione documentaristica della montagna (tra queste la rassegna dedicata alle montagne italiane), in parte a storie che lasciano il contesto montano sullo sfondo, concentrandosi sulla vita e tradizione delle popolazioni autoctone. I film in concorso offrono una varietà di stili cinematografici e trame considerevoli.
Tra le opere dedicate al territorio italiano, spicca il Ritorno sui monti naviganti, in cui il giornalista Paolo Rumiz ripercorre il suo precedente viaggio alla scoperta dell’Appenino, attraversato da Nord a Sud a bordo di una Fiat Topolino. Alcuni film colpiscono invece per la durezza delle situazioni trattate e del tono: è il caso di Qingshui li de daozi (Lama nell’acqua limpida) di Wang Xuebo, il racconto di un anziano costretto da una rigida tradizione a uccidere il suo unico bue, animale assai caro, per onorare la moglie morta; oppure Les Éternels di Vandeweerd, ambientato nella regione del Nagorno Karabakh straziata dalla guerra civile tra armeni e azeri, un film dominato da silenzi e simboli di morte, mentre i personaggi riflettono su macerie e sul proprio intimo delirio.
Pesante è anche il messaggio di Giardini di Piombo dell’italiano Alessandro Pugno, vincitore del premio per il miglior film ecosostenibile, nel quale una tenace insegnante di un paese delle Ande aiuta la comunità a capire i rischi della contaminazione da piombo, causata da una vicina miniera.
Altri film ritraggono la solitudine di coloro che vivono in comunità così remote da essere state gradualmente abbandonate: è il tema di Dadyaa di Pooja Gurung (premiato come miglior cortometraggio), l’inquietante storia di una coppia di anziani lasciati soli in un villaggio nepalese popolato da fantocci di stoffa che prendono vita se stimolati dalla musica.
Rappresentante perfetto di quell’idea di montagna come sito mistico a cui si accennava è il film La Ciudad Perdida di Francisco Hervé, racconto molto herzogiano sull’ossessione della meta proibita: nella Patagonia cilena un anonimo avventuriero va alla ricerca della mitica e dorata Città dei Cesari, capace di donare l’immortalità ai suoi ospiti al prezzo della loro memoria. Lavora invece molto con la fantasia Laura, la dodicenne svizzera protagonista di Das Mädchen vom Änziloch, che sogna di entrare nel mondo di una fiaba popolare per vincere la solitudine di una vita vissuta in alta montagna, lontana dalla vivacità della comunità urbana.
Tornando su toni documentaristici, si fa notare l’originale My name is Eeooow dell’indiano Oinam Doren (premiato come miglior film di un regista giovane), divertente e curioso documento sulla tradizione del villaggio di Kongthong, l’unico luogo al mondo dove le madri assegnano a ciascuno dei propri figli uno speciale “nome musicale”, eredità che rimane per il resto della vita.
La giuria internazionale del festival ha quindi assegnato i due premi principali, la Lessinia d’argento e d’oro, a due film ambientati entrambi nelle terre dell’Afghanistan, sicuramente due tra le opere più complesse e mature presentate al festival. Il secondo posto è conquistato da The Land of the Enlightened del belga Pieter-Jan De Pue, già vincitore del premio per la migliore cinematografia al Sundance Film Festival: racconto dal tono lirico che, tra rappresentazione documentaristica e finzione, presenta da un lato la vicenda di una gang di bambini alle prese con il contrabbando di pietre preziose e il commercio di munizioni sottratte a carovane e all’arido terreno, mentre dall’altro offre il punto di vista dei soldati americani impegnati ad affrontare le ultime forme di resistenza rimaste tra le montagne, già pronti a tornare in patria.
Uno spaccato della storia recente e sanguinosa dell’Afghanistan narrato con sorprendente eleganza stilistica e accompagnato da scenografie altamente suggestive, i cui veri protagonisti sono i bambini, armati di kalashnikov ma anche di sogni, come quello mitico di conquistare il palazzo reale di Kabul: sogni con i quali poter disperatamente tentare di gettare un ponte verso un futuro di speranza. La Lessinia d’oro è stata invece assegnata a Wolf and Sheep della giovane regista Shahrbanoo Sadat, già selezionato dal Festival di Cannes. Anche in questo film è l’infanzia ad essere messa in primo piano: un gruppo di ragazzi e ragazze appartenenti ad un villaggio di pastori sulle montagne afghane cerca lo svago attraverso il gioco della fionda, gli uni, attraverso il pettegolezzo e la simulazione matrimoniale, le altre. In ciascun gruppo, rigorosamente separato dall’altro per questione di costume, vi è un elemento emarginato: Sediqa è evitata dalle compagne perché creduta appartenente ad una stirpe maledetta, mentre Qodrat è deriso a causa della complicata situazione familiare. Nel bellissimo scenario dell’Afghanistan montano si dipinge il ritratto di una comunità a suo modo profondamente divisa, vittima di minacce concrete come quella dei lupi ma anche della propria forte superstizione, che prende le forme di una strana creatura notturna, una fata nuda dalla pelle verde nascosta sotto un manto di lupo.
Tra manifestazione del mito e ricerca documentaristica di racconti remoti, tra forma cinematografica poetica e uno sguardo sensibile alle problematiche contemporanee, siano esse di natura ambientale o bellica, il Film Festival della Lessinia conferma anche quest’anno la propria importanza e unicità a livello nazionale. Un appuntamento imperdibile per gli appassionati della montagna in tutte le sue sfaccettature, ma non solo: la rassegna è veramente un’ottima occasione per arricchire il proprio bagaglio culturale, aprendo lo sguardo su mondi che difficilmente potremmo conoscere, non fosse per l’impegno e la geniale creatività degli autori selezionati, narratori di quegli angoli di mondo che tanto riescono ad affascinarci e che, spesso, tanto vorremmo raggiungere ed esplorare. Farlo attraverso uno schermo, grazie alla magia del cinema e dei suoi bravi fautori, è veramente possibile e il Film Festival della Lessinia svolge splendidamente questa funzione, permettendo agli spettatori, da buon fuorilegge culturale, di ignorare i confini per conoscere alcune tra le tante, incalcolabili realtà di questo mon