La provincia e la città, l’impossibilità di trovare uno sbocco nel proprio ambiente nativo e la voglia di evadere, le aritmie del cuore e le scelte che non sono mai sincronizzate con i desideri. L’amore per il melodramma, il cinema americano classico e sopratutto per la letteratura dell’ottocento e in particolare per l’opera di Henry James, pervade tutto il cinema di Benoit Jacquot, incluso quest’ultimo 3 Coeurs che sembra una sintesi estrema, a tratti eccessiva, ma assolutamente ricca di possibilità rispetto a tutto i suoi film precedenti, forse proprio perchè questo non essendo l’adattamento da un romanzo dello scrittore Americano, ma una sceneggiatura originale dello stesso Jacquot scritta insieme a Julien Boivent, già collaboratore del regista francese per Au fond des bois e Villa Amalia, fa confluire in modo combinatorio temi chiaramente Jamesiani e forse anche un omaggio allo scrittore Newyorchese, attraverso il personaggio di Marc e l’utilizzo di una voice over così evidente e improvvisa in quello slittamento tra visione soggettiva e oggettiva, da far pensare ad un piccolo accenno alle tecniche narrative dello scrittore Americano. Sostenuto da una tesissima colonna sonora scritta da Bruno Coulais, inizia quasi come un noir, con Marc (Benoît Poelvoorde) che perde il treno notturno per Parigi mentre si trova di passaggio in una città di Provincia; la stazione è completamente vuota e Marc, perso in un ambiente sconosciuto, sembra alla ricerca di qualcosa. Incontrerà casualmente in un piccolo bar della città Sylvie (Charlotte Gainsbourg); incuriosito la seguirà e comincerà a parlarle con una scusa, trovando un’immediata sintonia malinconica che rimane nello spazio del non detto fino a quando non si separeranno. Si daranno appuntamento nel giardino delle Tuileries. Completamente presa, lei si presenterà puntuale, ma i problemi di cuore di Marc gli impediranno di arrivare per tempo all’appuntamento, innescando la prima aritmia sulla quale si svilupperà tutto il film, fatto di piccoli slittamenti, comunicazioni interrotte e rimandate, casualità e sconnessioni. Quando Sylvie scomparirà partendo per gli stati uniti con il compagno, Marc conoscerà la sorella Sophie (Chiara Mastroianni) senza sapere niente del legame famigliare. La sposerà, creando i presupposti per un continuo confronto tra desideri e aspirazioni, famiglia e passione, fedeltà e irrazionalità. Tutto apparentemente molto semplice e classico, ma con la capacità di Jacquot di non preoccuparsi minimamente di controllare il limite, giocando proprio con la forza, sopratutto visionaria, del contrasto, quella che è nel cinema che ama, da Sirk a John Stahl. Basta pensare a come tutta la vita di Marc sia costantemente sul filo dell’esplosione insieme alla sua malformazione cardiaca, una compenetrazione tra sentimento e vita che Jacquot osserva con strumenti apparentemente diversi da Patrice Chereau, arrivando ad elaborare un percorso simile sull’impossibilità del sentimento amoroso di uscire da una posizione di confine ed emergenza. L’amore tra Sylvie e Marc è marcatamente borderline proprio nel loro tentativo disperato di mettere al centro qualcosa che sfugge e rimane costantemente fuori fuoco, fuori quadro, fuori luogo. La sequenza della morte di Marc sulla sedia, sul limite di un ritorno entro il nido famigliare, mentre il suo cuore è altrove, ha strappato i soliti fischi di insoddisfazione in sala qui a Venezia 71, eppure, in quella sconnessione tra spazio e voce, con quel cellulare caduto che riproduce la voce di Sylvie, il corpo abbandonato di Marc dopo l’infarto (la morte di Henry James…) e Sophie sullo sfondo, ci è sembrato che ci fosse tutta la forza di un cinema che nell’eccesso melodrammatico non ha mai, fortunatamente, cercato la compostezza del verosimile.