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A Quiet Place – Un posto tranquillo di John Krasinski: l’approfondimento

Se la facoltà umana del linguaggio in quanto prodotto di natura è sempre sostanziata dalla dimensione storica vissuta dal parlante, e dunque il parlare appare inscindibilmente legato alla contingenza dei rapporti interpersonali e del contesto entro cui questi si collocano, l’uomo possiede la capacità di adeguare alle necessità richieste dalla situazione il tipo di risposta da fornire agli stimoli che riceve, è in grado, in altri termini, di regolare l’uso del linguaggio in base a convenzioni, intenzioni, imposizioni che gli vengano dall’interazione tra sé e l’esterno. Ma la parola come istinto primario, bisogno fisiologico, resiste in ogni caso inalienabile, eventualmente anche attraverso forme che non contemplino l’esigenza dell’emissione sonora.

A Quiet Place – l’italiano “posto tranquillo” che non rende la duplice, oltre che antifrastica, valenza del titolo originale – è un horror a tutti gli effetti che, precisamente inscrivibile nell’orizzonte del survival movie di cui rispetta in maniera riconoscibile canoni formali e tappe narrative, le percorre, quest’ultime, mettendo in scena il mondo sempre esperibile del quotidiano entro il perimetro futuribile di una qualsiasi post-apocalisse.

John Krasinski, alla sua terza regia e adiuvato dalla scrittura di Scott Beck e Bryan Woods, sfrutta un MacGuffin di genere per tematizzare questioni e paure al di là di ogni tempo e spazio che, posizionate e colte nell’universo orrorifico di “A Quiet Place” determinano da un lato l’intrecciarsi di vari sentieri di lettura, dall’altro incanalano il già visto verso una direzione funzionale alla revisione dei mezzi del genere e allargano lo spettro di fruibilità di un film che rimane comunque, non solo ma prima di tutto, un’originale prova di storytelling e una straordinaria occasione di intrattenimento.

Il motore del racconto, il MacGuffin si diceva, è l’invasione degli States da parte di mostruose creature cieche che attaccano il rumore, motivo per cui gli esseri umani sono costretti per sopravvivere ad escogitare in primo luogo forme di comunicazione alternative rispetto alla parola parlata e, in definitiva, a un’esistenza costantemente in bilico, trattenuta come trattenuto è l’esercizio di ogni funzione vitale, dall’indispensabile cibarsi ai pure umanamente necessari giocare, ridere, piangere, amarsi.

Gli Abbott allora fanno quello che devono, appunto si adeguano, restano famiglia mutando il codice che consente la socialità, adottano cioè il linguaggio dei segni a loro già noto perché, lo intuiamo, la figlia maggiore deve avere una qualche patologia uditiva.

Il silenzio è, in questo senso, condizione che per assurdo consente all’immagine di potenziare la parola, mai così chiara come qui, idealmente sussurrata o sbattuta in faccia, (quasi) sempre confinata nel raggio d’azione di una voce interiore che attraverso i volti e i corpi dei personaggi risuona direttamente dentro chi guarda. Rappresenta pure, il silenzio, occasione per allargare l’inquadratura, espanderla in maniera ossimorica al dettaglio, approfondire il visibile scandendo con un di più di iconicità il progredire di una storia che si inserisce in uno schema narrativo ultra-tradizionale – la catastrofe, la perdita, l’elaborazione del lutto, la prova, la crescita, la risoluzione temporanea o definitiva della crisi – per confermarlo in modo esatto ma a partire da una premessa insolita sviluppata attraverso una riflessione sul valore del suono e del rumore che va ben più a fondo del semplice tentativo di fare un horror “muto”.

Nell’economia del film, il sonoro ha infatti un ruolo centrale, narrativamente determinante e significativamente ambivalente. Ciò che fa rumore fa paura: uno shuttle giocattolo a pile, i passi al di fuori dei tracciati di sabbia, il ticchettio di una sveglia. Tutti dispositivi che innescano la suspense e preparano in sua assenza alla presenza più assordante, quella aliena.

Ma il rumore è anche, in una sorta di ancestrale complementarità, manifestazione e strumento insopprimibile di vita. L’espressione del dolore più autentico non può essere muta, il pianto di un neonato non si può controllare.

La realtà distopica abitata da Lee (lo stesso Krasinski) e da Evelyn (Emily Blunt) insieme ai loro figli preadolescenti stabilisce, come da prassi, un parallelo con il contemporaneo, un mondo che ci abita, anestetizza i nostri orecchi di un brusio mediale asemantico.

A Quiet Place si presta strutturalmente a una metafora di carattere sociologico di questo tipo che, al di là del suo essere più o meno forzata, consente di scorgere nel sentimento atavico della paura, dunque nella specificità di un genere, il veicolo attraverso cui può passare il recupero di una coscienza dei suoni significativi.

We know where the music’s playin’
Let’s go out and feel the night.

A quiet Place“, la recensione dei contenuti speciali del Blu Ray Univervsal Home Entertainment Italia

“A quiet Place” 

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Critica Cinematografica iscritta al SNCCI. Si anche classificata al secondo posto al concorso di critica cinematografica “Genere femminile: quando le donne criticano il cinema” indetto da Artemedia, oltre a scrivere di Cinema per Indie-eye, si è occupata di critica letteraria per il Corriere del Conero.
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