Dopo aver ambientato i suoi due lungometraggi sull’Altopiano della Sila, Frammartino sposta il suo sguardo sul non dissimile paesaggio dell’Appennino Lucano, facendosi testimonial della lodevole promozione dei propri territori da parte della Film Commission Basilicata e scegliendo di raccontarne la tradizione del Carnevale Lucano e in particolare la figura del Romito, l’uomo albero, che ogni anno da secoli torna ad animare le strade di Satriano di Lucania. Un soggetto che ribadisce l’interesse etnografico dei lavori del regista milanese, la componente che più lo accosta al cinema documentario, se non fosse che il metodo e la messa in scena rivelino sempre una natura differente, in qualche modo autarchica, modellata attorno alla forma teorica della ripetizione e del meccanismo chiuso.
Forma che si presenta nella sua veste più evidente e ortodossa in questo Alberi, cineinstallazione che ha esordito al PS1 di New York ad Aprile ed è appena passata per il Filmmaker Festival di Milano. Il termine con cui viene presentato l’opera, cineinstallazione appunto, la pone giustamente a metà strada tra la fruizione cinematografica e l’installazione artistica: la proiezione avviene su un classico schermo da cinema, nel buio di una sala,e non necessita di ulteriori paratesti. La differenza (a parte i comodi cuscinoni posti davanti allo schermo) consiste nel fatto che Alberi, della durata modulare di 30 minuti, viene proiettato in loop continuo per varie ore e si può entrare e uscire quando si vuole dalla sala( per quanto ideale sarebbe cominciare la visione dalla sutura del cerchio).
Il termine “loop” non a caso era già comparso nell’intervista che il regista ha rilasciato ad Indie-eye nel 2010: “Ritengo che un film si dimostri vivo quando invecchia, quando ogni volta che lo rivedi è qualcosa di diverso (…) quando all’interno del film si creano degli automatismi, che innescano questo strano loop ipnotico capace di far scaturire un’energia alle immagini.” Ne il Dono e in Le Quattro Volte, ad invitare ad una nuova visione erano solo la struttura circolare del racconto e le inquadrature che si lasciano invadere dai dettagli senza andarli a cercare, lasciando all’occhio dello spettatore questo compito. In Alberi, ferme restando queste due condizioni, è la forma filmica stessa a costringere lo spettatore a rivedere il film, lasciando che riveli ad ogni visione un dettaglio in più, un volto e un personaggio che ci era sfuggito, un’identità nuova nella popolazione, nel panorama e nel microcosmo del bosco.
Nella stessa intervista Frammartino confessava la fascinazione per la forza di gravità e, cinematograficamente, per “la forza ipnotica dei corti di Fischli e Weiss“, macchine di Rube-Goldberg raccontate da una macchina da presa. Questa fascinazione si era espressa chiaramente a livello di singole scene sia nell’articolato suicidio presente ne Il Dono, sia nel rocambolesco incidente durante la processione ne Le Quattro Volte. Sono meccanismi che a livello microscopico riecheggiano i più ampi e tortuosi ingranaggi del racconto dell’intera trama, e su un’ulteriore piano il ciclo della vita, umana, animale e vegetale, inscritto nel lento scorrere delle stagione e del tempo.
In Alberi l’intero racconto è visivamente presentato come una macchina di Rube-Goldberg che alimenta sè stessa in un gioco di pendenze e gradienti: gli uomini, le piante e la macchina da presa stessa si muovono come in balia di un forza superiore, un inseme di flussi gravitazionali che fanno scendere gli uomini dal paesino e li fanno poi salire verso le alture boscose, come mossi dalla stesso forza invisibile ed eterna che muove il fiumicello più volte inquadrato. Ogni Immagine è strettamente concatenata all’altra con rapposti di analogia, avvicinamento e allontanamento dai soggetti, o da richiami in colonna sonora. In questo sguardo che costringe il racconto in un meccanismo dalle traiettorie precisissime si rivela la componente finzionale dello sguardo del regista, la sua rigida dittatura su soggetti agresti che sembrerebbero muoversi ed esistere indipendentemente da esso.
Alberi si mostra così come l’unità basilare del cinema di Frammartino: tre livelli di loop coesistono in unità temporale di 30 minuti; il formato, il meccanismo “fischliano” e la tradizione secolare, a circoscrivere lo spazio sempre più stretto in cui convivono etnografia e intreccio, documentario e finzione.
In questo corto circuito si può azzardare un’ulteriore livello di interpretazione: la ripetizione secolare, immutata, la chiusura di un cerchio che ribadisce sè stesso e non entra mai in comunicazione coi sistemi al suo esterno, è la forma che mantiene intatte e affascinanti determinate tradizioni. Al contempo il cinema di Frammartino grazie allo stesso loop si conserva in una sfera di vetro lontana anni luce dai temi della modernità, seppure sia capace di imporsi come una nuova ed originale via di affrontare il racconto per immagini.