Tradizione e libertà animano la ricerca di Jawad Rhalib da quando la professione giornalistica si è trasformata in una particolare versione del cinema legato all’indagine del reale. Tra i suoi lavori, Au temps ou les Arabes dansaient, sintetizzava meglio di altri una tensione stratificata tra radici culturali e apertura creativa. Il fondamentalismo, in quel contesto, emergeva a livello transnazionale, come ostacolo alla definizione dei corpi. La sfida consisteva nel descrivere il mondo arabo attraverso i codici espressivi della danza, gene originario di quella cultura, rispetto al quale le sacre scritture non pronunciano alcun divieto. Nel film, tra le esperienze registrate a diverse latitudini, diventa centrale quella dello stesso Rhalib, anticipando lo spirito che attraverserà Amal, il suo nuovo lavoro di finzione, presentato qualche giorno fa all’estone Tallinn Black Nights Film Festival.
Il regista di origini marocchine, nel documentario del 2018 raccontava il percorso di accettazione della figura materna, danzatrice del ventre, anche in relazione al confronto con i coetanei durante gli anni della scuola. Un’attività indicibile paragonata al meretricio che alimentava il disagio del ragazzo, proprio nell’ambito dell’esperienza didattica e che innescava una riflessione sul risentimento, il senso di colpa e la vergogna. Sentimenti, la cui mancata elaborazione avrebbe potuto generare l’esplosione di un conservatorismo radicale.
La classe dove insegna Amal, l’insegnante di letteratura interpretata da Lubna Azabal, concentra un gruppo di allievi cresciuti all’interno del vasto contesto islamico di Bruxelles.
Rhalib entra in modo diretto nello spazio educativo, lasciando emergere spontaneamente conflitti identitari diversi. La morfologia della delegittimazione razzista caratterizza l’esperienza di ciascuno, da una parte e dall’altra del giudizio, restituendoci un’immagine della relazione con le proprie radici in continuo movimento rispetto ai margini della comunità di riferimento.
Il compito di Amal, all’interno di uno spazio centripeto come quello dell’aula, è di cogliere dissidi e tensioni per costruire altre narrazioni possibili da quelle del conflitto.
Se per Jalila il velo rischia di diventare oggetto di scherno, tanto da scomparire dall’ottica condivisa della scuola, tutto il disagio assorbito viene rilanciato con furia fondamentalista contro Monia, lesbica accolta dall’amorevole prudenza del padre e che pubblicamente rompe tutti gli argini di quell’accortezza protettiva, abitando l’identità di genere come uno strumento di rivolta.
Lo spazio privato della comunità è quindi un prolungamento di quello scolastico, dove la relazione tra figli e genitori, imposta e soprattutto sposta i confini stessi della didattica.
Un equilibrio difficile che Rhalib filma attraverso una pluralità di sguardi, attento alla descrizione dei personaggi e all’emersione di sentimenti contrastanti.
La lezione è in parte desunta dal cinema di Laurent Cantet, ma viene sottilmente riletta elaborando la morfologia dello spazio didattico come un campo di battaglia dove la resistenza è insufficiente.
L’intensità estrema con cui Lubna Azabal interpreta il suo personaggio, rompe i limiti del ruolo formativo, penetrando in quello istituzionale, genitoriale ed infine privato, restituendoci la difficoltà di un mestiere di frontiera.
La pietra dello scandalo è la lettura di alcuni versetti di Abū Nuwās, poeta persiano di padre arabo vissuto nell’VIII secolo, cantore del vento e del vino, omosessuale tollerato da alcuni califfati, perseguitato da altri. Il tentativo dell’insegnante è quello di scardinare la percezione confessionale della realtà e introdurre un elemento già inscritto nella società islamica, ma progressivamente cancellato da un’ortodossia politico-religiosa.
La lezione risuona con l’esperienza di Monia e con il rifiuto delle sue scelte, attraverso i volti e le reazioni dei ragazzi e allo stesso tempo introduce un tema politico caldo, come quello della radicalizzazione islamica in territorio belga.
La speranza di Amal è quella di far uscire Allah dalle aule, un tentativo di laicizzazione che non può avverarsi completamente, per la presenza di Nabil, insegnante di religione musulmana la cui influenza sui ragazzi assume a poco a poco connotazioni inquietanti e radicali.
Rhalib mostra tutte le forze in campo, dalla presidenza scolastica che cerca un equilibrio e teme di insultare un’intera comunità religiosa, fino alla diversa percezione dei singoli ambienti famigliari e all’esplosione della bolla virtuale, strumento di amplificazione della violenza identitaria.
A determinare tutto è l’ostinazione di Amal e il suo rifiuto di sottomettersi alla logica del dogmatismo salafita, ma piazzare un’esplosivo culturale nel cuore di un’Europa radicalizzata, equivale a generare la distruzione dello spazio sociale.
L’illusione di fondere libertà e culto, radici identitarie con i principi dell’illuminismo, rivela al contrario l’impossibilità di un dialogo tra realtà secolarizzate e ortodossie religiose.
Lo sguardo sul mondo delle ultime, mette il diavolo al centro dell’occhio e qualsiasi deviazione da un canone che distruggerebbe la possibilità di controllo su attitudini e corpi, non può essere tollerata.
Rhalib costruisce un dramma in crescendo, affidandosi alla straordinaria forza terrestre di Lubna Azabal, interprete in stato di grazia, accesa da straordinaria passione laica e guerriera di un femminismo pratico che collide con l’apparente moderazione di un fondamentalismo estremo, annidato nelle abitudini quotidiane della convivenza democratica.
Sguardo nerissimo quello del regista marocchino, ma niente affatto nichilista.
La speranza è un sentimento concreto e pulsante che trascina l’intero film, anche quando è troppo tardi.
Amal di Jawad Rhalib (Belgio 2023, 100 min)
Interpreti: Lubna Azabal, Fabrizio Rongione, Catherine Salée, Evelyn Ariza, Johan Heldenbergh, Babetida Sadjo
Fotografia: Lisa Willame