venerdì, Novembre 22, 2024

American Hustle – L’apparenza inganna di David O. Russell: la recensione in anteprima

L’incontro con Jennifer Lawrence ha portato bene a David O. Russell, il suo cinema è diventato più fisico, emotivamente vicino ai personaggi e alle loro improvvise intemperanze deambulatorie; fuori dallo schema del racconto a orologeria, nelle prime produzioni del regista Americano troppo vicino alle regole scritte di un eclettismo calcolato, “Il lato positivo” affidava lo sguardo sull’universo disfunzionale della famiglia anche all’anarchia performativa degli attori; se si pensa alla sequenza del già citato Silver Linings Playbook, dove Bradley Cooper e Jennifer Lawrence si superano a vicenda correndo per la strada, viene in mente quella continua distruzione e riconfigurazione dello spazio visivo, che attraverso un vero e proprio incontrollabile spostamento del punto di vista, incendiava il cinema di Cassavetes in una corsa a perdifiato lanciata contro i margini stessi delle sue opere.

American Hustle è posseduto dalla stessa furia del film precedente di O. Russell e si avvicina ancora di più ai corpi degli attori, moltiplicando i “caratteri” in una dimensione polifonica più che corale e non lasciandoli quasi mai sullo sfondo come delle figurine senza spessore emotivo; al contrario punta alla libertà del movimento e alla continua messa in abisso del senso e della “verità” soggettiva.

Scritto insieme ad Eric Warren Singer, il film si ispira ai fatti legati allo scandalo Abscam, un’operazione segreta dell’FBI che ebbe luogo ad Hauppage, nel Long Island, tra la fine degli anni 70 e i primi anni 80, inzialmente come indagine su una serie di frodi, poi allargata su vasta scala ad una rete di corruzione pubblica che coinvolgeva un senatore e alcuni membri del congresso.
Con un’aderenza di fondo ai fatti, O.Russell entra nel sistema cognitivo e immaginale di quegli anni, guardando in superficie al cinema di Martin Scorsese e a quello del primo Paul Thomas Anderson, ma separandosi molto presto dalla scrittura storico-antropologica per entrare dritto nelle dinamiche famigliari e relazionali. American Hustle è un film in questo senso, intimamente politico, e racconta anche il nostro passaggio come “Impostori” di (una) storia privata e collettiva.

Irving Rosenfeld è il corpo incredibile ed eccedente, alla De Niro,  di Christian Bale, vero e proprio “Confidence-ManMelvilliano, un faccendiere specializzato in truffe che sin dalle prime immagini sistema il suo travestimento tricologico per prepararsi a offrire quello che le persone “vogliono vedere”; incontrerà Sidney Prosser, una splendida stripper interpretata da  Amy Adams, caldissima, fisicamente rimodellata sulle immagini della pornografia glam ideata da Larry Flint nella seconda metà dei settanta, figura dolente e malinconica, ossessionata dal travestimento come necessità feroce di reinventarsi; sulle note di Jeep’s Blues di Duke Ellington, i due diventeranno amanti inseparabili e soci in affari, architettando un vorticoso sistema di prestiti e di false rendite con un fantomatico sistema bancario Londinese, garantito da un intermediaro di eccezione, Lady Edith Greensly, ovvero uno dei travestimenti più riusciti di Sidney. Quando in questa rete cadrà Richie DiMaso, agente FBI in incognita, interpretato da Bradley Cooper, lo svelamento sarà semplicemente l’inizio di un incessante ribaltamento di senso, identità personale, spirito di sopravvivenza collettivo, quasi a raccontarci che le radici economiche di una nazione affondano nella necessità di bluffare, vero collante che tiene in piedi tutte le relazioni nucleari.
E se da una parte, American Hustle, identifica questo continuo mentirsi addosso come necessaria riappropriazione del proprio spazio di “verità”, attraverso la costruzione di un’identità mitologica, dal Tony Manero dell’agente DiMaso, fino a Carmine Polito, politico corrotto che sembra uscito da un dancefloor sospeso tra gli anni ’50 e i ’70, non è solo il travestimento che unisce tutte le figure del film, incluso il cameo di Robert De Niro che ipostatizza il suo volto “storico” in una potentissima maschera di puro terrore, ma è la scordatura di questo make up allucinato con i corpi eccedenti di performer extra-ordinari, ovvero fuori dalla compostezza attoriale ordinaria. L’attraversamento distruttivo e fuori controllo di Jennifer Lawrence nella parte di Rosalyn, moglie legale di Irving, è una disturbante addizione della maschera al corpo; Rosalyn riconfigura continuamente la sua realtà, rendendola più tollerabile, cerca se stessa nella menzogna e si divincola come un’ossessa sotto i suoi panni, la sequenza dove fa le pulizie di casa cantando “Live and Let Die” sopra la versione originale dei Wings, è quasi un numero tragico “en travesti”, un esproprio terribile della sua identità, che O.Russel evidenzia sfruttando la forza “genitale” dell’attrice Americana, con quella stessa vicinanza all’artefatto che Eastwood rischiava positivamente nel suo J. Edgar

Che O.Russel non sia quindi interessato alla retorica Scorsesiana meta-storica, ma al margine più intimo di un avanspettacolo collettivo dei sentimenti, con un’acutezza commovente e mai facilmente cinica, è confermato dall’amore “vero” per i corrotti, i farabutti di piccolo e grande cabotaggio, e la con-fusione di questo mondo sul bordo con il cuore pulsante di tutto il motore famigliare; il regista Americano cala il suo sguardo nel mezzo e quasi mai al di qua di una distanza scopica di sicurezza e quando Irving entra in casa dell’amico Polito, per scusarsi dei guai in cui lo ha fatto piombare Rosalyn, vera e propria mina vagante che spezza le regole di tutte le rappresentezioni inclusa la sua, con qull’ansia del “vero” che conduce irrimediabilmente verso il “falso”,  O. Russel cattura tutta la famiglia del politico ammassata sulle scale che collegano i due piani della casa, quasi fosse la parodia a basso costo di un coro tragico, la versione brulicante di vita e demitizzata della stessa scena in The Funeral di Abel Ferrara.

Il ritorno alla normalità è allora semplicemente un’apparente dismissione del costume, una boccetta di coprente per le unghie che passa di mano in mano, unico testimone oggettivo di un amore vero, basato sulla truffa.

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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