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Amore, cucina e curry di Lasse Hallström: la recensione

Steven Knight è un ottimo sceneggiatore, capace di delineare nella scrittura grandi visioni d’insieme allestite con estrema attenzione a tutte le parti del congegno narrativo, Locke è un esempio,  segno di una difficile relazione dell’autore britannico con la messa in scena, irrimediabilmente chiusa entro una funzionalità asfittica da far sentire il peso della differenza tra scrittura acuminata e radicale assenza di una forte idea di cinema, e per ragioni diametralmente opposte, il talento dello scrittore britannico viene confermato da questo “The Hundred-Foot Journey“, un classico “pop” prodotto da Steven Spielberg e diretto da un regista eclettico, con una grande capacità di sguardo come Lasse Hallström, assolutamente a suo agio con la semplicità e le potenzialità immaginali del racconto di formazione, linea sottile che in qualche modo tiene insieme tutta la sua filmografia.

L’educazione sentimentale di Hassan comincia a Mumbai con il talento naturale della madre per i segreti della cucina, è con lei che il ragazzo apprende i segreti alchemici delle spezie, la combinazione dei sapori ma sopratutto una dimensione sensoriale che Hallström privilegia con una serie di sequenze legate all’assaggio, semplici e potenti, e collegate da un sottilissimo elemento erotico che dai ricci di mare porterà il giovane al riconoscimento delle proprie radici, anche affettive, in una cultura diversa. La famiglia Kadam si trasferirà in Europa in cerca di fortuna per approdare nel sud della Francia a Saint-Antonin-Noble-Val, paesino radicato nelle proprie tradizioni, e che Hallström introduce con una mirabile sequenza girata alla frontiera dove la discussione tra la famiglia indiana e gli ufficiali di servizio vira da questioni squisitamente burocratiche alla possibile presenza dell’anima nelle verdure del paese. Quando i Kadam decideranno di allestire un ristorante indiano tradizionale, ricavato da una vecchia struttura abbandonata, dovranno fare i conti con Le Saule Pleureur, il locale di Madame Mallory (Helen Mirren) collocato sul lato opposto della strada ed elevato su un piccolo promontorio sopra il paese. La Mallory può vantare una stella Michelin e ovviamente non gradisce la presenza dei concorrenti stranieri, ingaggiando una guerra a colpi di ingredienti e strategie non proprio ortodosse per mantenere il monopolio delle materie prime nell’arena del mercato.
Mentre si consuma questa guerra, Hassan, stimolato dalla bella Marguerite (Charlotte Le Bon), aiuto cuoca nel ristorante nemico, impara clandestinamente i segreti della cucina francese.

In modo simile alla commedia classica Hollywoodiana, Hallström controlla il set come fosse un cosmo circoscritto ma aperto, con la forza di creazione del senso attraverso i movimenti, i carrelli leggeri e invisibili, la cura nel delineare i caratteri attraverso le azioni, lo spazio come sistema drammaturgico spettacolare approntato per una portentosa messa in scena, ma non per questo lontana dall’anima delle cose; e se qualcuno, nel rilevare la “banalità” delle situazioni si fosse dimenticato cosa era certo cinema di formazione che si produceva negli anni ’80, ancora capace di parlare a tutti con un’ingenuità pari solamente alle ambizioni universali del racconto, potrebbe avvicinarsi con difficoltà al cinema di Hallström, così legato ad un’epica del quotidiano, semplice e magniloquente allo stesso tempo.

Dal nostro punto di vista “Amore, cucina e curry”, titolo che non rende giustizia all’originale “il viaggio da cento passi”, è un sorprendente metissage di generi classici filtrati attraverso una post modernità che non si lascia disintegrare dalla frammentazione dell’occhio; perchè se la sintesi dello spazio visivo, con quei due ristoranti separati da una piccola strada, fa pensare alle dinamiche del musical, sgombrando il campo da qualsiasi tentazione teatrale per il modo in cui l’orchestrazione dei singoli elementi prende il volo, lo sguardo spesso è quello post-classico del nuovo cinema digitale affrontato qui con una composizione del quadro meno esplicita (la sequenza dei fuochi artificiali per esempio) e al servizio di una leggerezza che cerca ancora nel rapporto tra gesti, corpi, azioni e colori il propellente più importante.

Tutta l’opposizione tra la cucina tradizionale, quella capace di attivare la memoria, confrontata con le ultime novità nel campo molecolare, crea un contrasto tra il ristorante di Beaubourg dove Hassan seguirà le lusinghe della carriera, e tutte le location di Saint-Antonin-Noble-Val da un punto di vista strettamente spaziale e cromatico; algido il primo, costituito dal grigio-verde notturno del metallo e del vetro, color pastello il secondo, con un’accezione tecnica del mezzo digitale al servizio di quel valore semantico che i colori saturi del technicolor avevano assunto dalla fine degli anni trenta e per tutti gli anni ’40, prevalentemente per esaltare l’iperrealismo dell’universo musical. Ed è proprio la musica che sembra giocare un ruolo sotterraneo ma fondamentale nel film di Hallström, in modo meno esplicito di quello culinario e multiculturale; sono le schermaglie tra l’anziano padre di famiglia indiano e la Mallory, tutte condotte sulle sfumature accordarli del volume, dell’intensità e dei constrasti cromatici, infine sovrapposti con l’armonia della danza, sulle note di un brano crepuscolare di Charles Aznavour che ancora, parla di immagini del passato che vivono nuovamente nel presente.

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