Si esce disorientati dalla visione di Anime Nere, perchè lo scenario di Africo, paese spaccato in due tra le pendici dell’Aspromonte e i ruderi di Casalnuovo, viene filmato da Munzi evidenziando questa stratificazione tra natura e cemento, tra la persistenza della tradizione e il deserto di una modernità senza alcuna funzione, dominata dall’insediamento di una città architettonicamente delirante e popolata da fantasmi.
Luigi (Marco Leonardi) e Rocco (Peppino Mazzotta) sono due di tre fratelli, dopo l’omicidio del padre lasciano il paese per fare fortuna nella metropoli, costruendo la loro vita intorno al traffico di eroina; mentre Luigi svolge il lavoro più sporco, Rocco sviluppa la sua attività imprenditoriale con i soldi ricavati dagli affari illeciti del fratello. Separato da loro e ancora attaccato al sogno di una vita rurale legata alla pastorizia, c’è Luciano (Fabrizio Ferracana) il maggiore dei tre; isolato nella parte di Africo vicina alla montagna, alleva le sue capre e cerca di proteggere il figlio Leo (Giuseppe Fumo) che ha cominciato a sviluppare una forte insofferenza per questo ritiro forzato; attratto dall’esuberanza dello zio Luigi e dalla sua arroganza, rimprovera al padre un atteggiamento passivo che ha confinato la famiglia in un luogo senza futuro e sottoposto alla prepotenza dei più potenti del luogo.
Munzi osserva la vita dei tre fratelli da un punto di vista antropologico e senza ricorrere ad una mitologia straniante, si cala nel contesto famigliare come se fosse un luogo attraversato da dinamiche che conosciamo bene. Con i colori plumbei della fotografia di Vladan Radovic, coglie le donne sullo sfondo, vittime e complici di una logica senza uscita, schiacciate da una concezione della famiglia che le tiene fuori da qualsiasi scelta, e parte di un progressivo girare a vuoto, spinta inesorabile verso l’entropia che crea una frizione tra gesti e parole da una parte, e spazi che disattendono le azioni, risucchiandole in una dolorosa e tragica anti-epica.
Perchè Anime Nere ha certamente un impianto solidissimo e potente, vicino ad un cinema asciutto, senza scorciatoie simboliche o grottesche e assolutamente “raro” in un contesto come quello Italiano; ma non è solo questa capacità di declinare in modo originale ed efficace alcuni elementi del cinema di genere, quanto il modo in cui la tensione “nera” viene erosa dall’interno, evidenziandone i vuoti, raccontando un desiderio di vendetta e di potere come una progressiva distruzione delle basi su cui si regge. Quando Leo sfonda la vetrina del negozio di un boss locale con un colpo di fucile, gesto che accellererà la dissoluzione della sua famiglia, Munzi filma l’azione diretta, la isola come se fosse una fugace apparizione. L’omicio di Luigi avverrà nello stesso modo, d’improvviso, inquadrato dall’abitacolo della sua macchina, con un esecutore in fondo alla strada che sembra assumere la posizione di un fantasma.
La vendetta di Leo, è attraversata da una serie di deviazioni e sconnessioni, come se alla funzionalità meccanica del congegno “noir” fosse sostituita la cronometria che lo fa muovere, lasciando solamente la sensazione di minaccia imminente, non mostrando mai i mandanti, facendo emergere dalla penombra gli esecutori, mangiando le viscere di una famiglia prima ancora dell’epilogo, con un rovesciamento delle aspettative che assumerà i segni di una tragedia classica, nella coincidenza tra male e radici. L’esperienza di Munzi nel documentario muove continuamente Anime Nere in una dimensione liminale, con quelle splendide incursioni nella vita di campagna, il suono della natura, la tammurriata che esplode improvvisamente a commentare un momento gioioso ma allo stesso tempo descrizione di una dimensione arcaica che dalla terra dei morti, parla un codice indecifrabile.