sabato, Novembre 2, 2024

Apes Revolution – il pianeta delle scimmie di Matt Reeves: la recensione

In “L’enracinement, Prélude à une déclaration des devoirs envers l’être humain” il saggio di Simone Weill scritto a Londra nel ’43 e pubblicato postumo nel ’49 dalla casa editrice Gallimard per la collana “Espoir” diretta da Albert Camus, la filosofa francese scriveva: “Il pacifismo può esser dannoso perché fa confusione tra due sentimenti di ripugnanza: la ripugnanza a uccidere e quella a morire. La prima è onorevole, ma debolissima; la seconda, quasi inconfessabile, è molto forte; la loro mescolanza crea un movente di grande energia, che non è inibito dalla vergogna, e in cui agisce soltanto la seconda ripugnanza. I pacifisti francesi degli ultimi anni provavano ripugnanza soltanto a morire, non già ad uccidere, altrimenti, nel luglio del 1940, non si sarebbero precipitati a collaborare con la Germania“.

La collocazione di queste riflessioni è complessa e si sviluppa in un contesto come quello di “France Libre”, l’organizzazione formatasi nel ’40 sotto la guida di Charles De Gaulle, di cui la Weill faceva parte. Il saggio è una sorta di lavoro su commissione il cui risultato avrebbe dovuto essere quello di una verifica redazionale di documenti che provenivano dalla Francia occupata e che la Weill trasforma in un lavoro filosofico di enorme complessità sull’essere umano e sulla definizione dei doveri in relazione ai diritti, con una priorità dei primi sui secondi, discutendo quindi in modo originale e provocatorio sulle nozioni della stessa “Dichiarazione dei diritti dell’uomo”.

Il nuovo re-boot de “Il pianeta delle scimmie” passato nelle mani di Matt Reeves raccoglie l’eredità politica della saga inaugurata nel 1968 da Franklin J. Schaffner, avvicinandosi in parte all’atmosfera bellica del secondo capitolo diretto da Ted Post ma allo stesso tempo affrontando un percorso del tutto originale utilizzando alcuni stimoli filosofici e narrativi presenti nel romanzo scritto da Pierre Boulle, già sfruttati nel blockbuster precedente diretto da Rupert Wyatt, che insieme agli sceneggiatori Rick Jaffa e Amanda Silver mescolava le prime due parti del libro dello scrittore Francese.

Il film di Reeves, ancora una volta sceneggiato dalla coppia Jaffa/Silver, sceglie colori, dècor e ambientazioni post-apocalittiche molto più cupe tracciando una scopertissima e nient’affatto casuale parabola sulla necessità della guerra in un contesto spettacolare che punta ad una maggiore perfezione degli elementi CGI. Con una serie di attori sospesi tra corpo ed elaborazione digitale, tra cui Andy Serkis, l’interprete creaturale per eccellenza, Reeves ci immerge in una nuova umanità costituita da primati accentuandone la ricchezza morfologica grazie anche al lavoro di Matt Hurwitz, Sharon Gosling e Adam Newell, autori del concetto grafico che sta alla base di tutte le scimmie, la cui resa sprigiona un innegabile fascino tribale che serve a Reeves per rendere ancora più credibile la superficie gerarchica e sociale di questo mondo parallelo e anteriore alla razza umana.

Più Disney che Kubrick quindi, almeno nel tentativo colossale di antropomorfizzazione, che sotto la cura estrema di forme e movimenti cerca di mantenere quella mutevolezza dello sguardo che in un certo senso ricorda la tenerezza delle creature preistoriche Malickiane, lo stesso sguardo su cui Reeves stringe nella sequenza conclusiva del film. E se per Koba (Toby Kebbell) il ricordo delle torture subite dagli umani non può essere cancellato, tanto sono presenti i segni e le cicatrici sul suo corpo, la dolcezza e la grandezza di prospettive di Dreyfus (Gary Oldman) si manifesta attraverso i segni dei dispositivi digitali (il tablet con la slideshow famigliare, il contatto tra internet e il mondo sopravvissuto), gli stessi dispositivi che raccontano l’evoluzione cognitiva di Cesare quando mette insieme memoria e commozione nel guardare un vecchio nastro DV dove Will Rodman (James Franco) condivide con la scimmia la conoscenza del linguaggio.

Da entrambe le prospettive Reeves delinea due spazi liminali di civilizzazione le cui ragioni invece di affondare le proprie radici nella forma di un pacifismo astratto, trovano una giustificazione in una lotta per la sopravvivenza che non può consentire la cancellazione della violenza. E se l’asse pacifista che dialoga tra Cesare e Malcolm (Jason Clarke) sembra uno specchio manicheo di quello più razziale e identitario di Dreyfus-Koba, con la chiarezza di uno spettacolo per le masse Reeves mantiene un buon livello di ambiguità con quell’improvviso rovesciamento che colloca Cesare in una posizione di ineluttabilità tragica, con la riappropriazione di uno scettro che non sembra necessariamente essere un simbolo di pace.

Una forma politica scopertissima e assolutamente consapevole si diceva, anche in quella lotta manifesta per il controllo dell’energia elettrica che mette in relazione scimmie e umani con una diversa prospettiva su desideri e bisogni. Quando l’energia elettrica improvvisamente ravviva quello che era un vecchio distributore di benzina sepolto nella vegetazione, in una splendida sequenza che ricorda la forma attrattiva tra musica e immagine del miglior cinema Americano anni ’80, uno degli uomini introdotti all’interno fa partire “The Weight“, un brano scritto da Robbie Robertson per The Band nel 1968, dove si racconta di un viaggiatore immaginario che giunge in quella che sembra essere la terra santa, per cercare ospitalità tra personaggi con nomi biblici che attraversano la sua strada.

Al di là della stratificazione del brano che ha moltissimi riferimenti con la storia personale di Robertson (la sovrapposizione tra Nazareth e un’altra città con lo stesso nome in Pensylvania) e con quella politico sociale dell’america di quegli anni, e quindi oltre questa sociologia visibile e consapevole di cui si parlava e che allude ovviamente anche alla storia recente, i momenti più belli del film di Reeves risiedono altrove, ovvero in quella naturalezza, tutta Americana, con cui i segni non si sostituiscono alle emozioni; il vecchio distributore sembra un luna park senza più gestori, e Reeves lo filma con quello stupore dello sguardo che in quel momento coinvolge scimmie e uomini nella contemplazione di un fenomeno, tra luci e suono, in una dinamica verticale che unisce due spazi diversi, esattamente come l’inversione della natura tecnologizzata del tipico paesaggio fantascientifico che diventa un ammasso di rottami e cemento ormai defunzionalizzati dalla pervasività della stessa natura; l’abitazione segreta nascosta nella vegetazione è un esempio di questo rovesciamento continuo tra i due elementi, ed è proprio li dentro che lo sguardo trova ancora rifugio, rispetto ad uno specchio dei recenti conflitti che assicura lo spettacolo ad un’impalcatura tanto potente quanto manifesta.

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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