Tunisi, estate 2010. Farah è una diciottenne che vive nella città poco prima della Rivoluzione. Si è da poco diplomata e la sua famiglia vorrebbe che si iscrivesse alla facoltà di Medicina. Lei si rifiuta, ha tutt’altre aspirazioni. Ha un gruppo politico rock di cui lei è la voce. Si sente molto libera e curiosa in quell’estate. La sua prima birra, le prime boccate di fumo, il sesso. Non vuole pensare ad altro che ad assaggiare liberamente questi frutti dal sapore tutto nuovo. Sua madre, Hayet, è molto preoccupata per il libertinaggio di Farah. Anche lei in gioventù era passionale e spregiudicata, e conosce bene le insidie della città. Per questo teme per l’incolumità della figlia.
L’estate descritta da Leyla Bouzid è calda e accogliente, e rimane praticamente in disparte qualsiasi questione politica; e lontana, anche se imminente, è la Primavera araba. Interessante è l’approccio con cui la regista ci mostra la quotidianità di Farah e dei suoi amici, tra prove, concerti, uscite in notturna; mostra un forte desiderio di normalità nonostante la repressione. Ed è sempre il desiderio di “sfondare” unito a una buona dose di incoscienza che spingono i giovani a continuare ad esibirsi, nonostante i loro testi abbiano un contenuto ritenuto pericoloso dallo stato di polizia che vige in quei luoghi.
Ma se da una parte ci sentiamo così vicini alla realtà familiare di Farah ( i litigi con la madre, lo status traballante di figlia di genitori separati ), o alla sua pelle nuda e percorsa dai brividi della sua prima volta, si cercano inutilmente le tracce dell’impegno politico di cui Farah e i suoi amici si fanno fieri porta-bandiera, distante, e con il sapore di una ribellione fine a sé stessa. I rapimenti per le strade per mano della polizia che portano, uno dopo l’altro, i giovani a scoprire la durezza del “regime” vengono lasciati a una dimensione chiusa e privata, come tutta la tematica, appena accennata, legata ai social network, così preminenti durante i fatti della Primavera araba del 2010-11, strumenti che si sono rivelati utili ai fini organizzativi, comunicativi e divulgativi a dispetto dei tentativi di repressione statale.
In A’ peine j’ouvre les yeux vi è un eccessivo sbilanciamento dalla parte del dramma dei sentimenti, che toglie spazio a quello più pressante delle proteste contro la corruzione, favorendo quindi quel cinema minimo, fatto di gesti altrettanto minimi, che lascia sullo sfondo le questioni più laceranti.