mercoledì, Febbraio 19, 2025

Ari di Léonor Serraille: recensione – Berlinale 75 (Concorso)

Léonor Serraille racconta un altro soggetto destituito, nuovo tassello nella sua galleria di personaggi liberi, ma questa volta percorre una via più radicale, in un formidabile esempio di cinema poetico che si serve di elementi e frammenti dalla storia delle arti, costantemente fuori luogo e fuori tempo, per raccontare l’uscita dai ruoli. Visto in concorso a Berlino 75

La madre del piccolo Ari consegna al figlio un’eredità affettiva immersa nel colore, la bellezza e la libertà.
Il suo nome è lo stesso del secondo figlio di Odilon Redon, verso il quale il pittore francese riverserà stupore e gioia capaci di cambiare i valori cromatici della sua opera, dopo l’oscurità e la sofferenza causate dalla morte del primogenito.
Un’introduzione allo stupore, ma che irrimediabilmente trattiene il suo contrario.

Sulla soglia dei trent’anni, Ari lavora a contatto con i bambini e nel tentativo di legger loro L’Hyppocampe di Robert Desnos si inceppa, non riesce a raccogliere la loro attenzione e perde il contatto con la realtà per le pressioni di un’insegnante sin troppo attenta a censurare la libera espressione di due punti di vista anarchici e in collisione.
Cacciato di casa dal padre per aver perso il lavoro e l’ennesima occasione per dare un senso alla propria vita, Ari comincia a vagare e compie un movimento non lineare, nello spazio degli affetti, ma anche in quello della memoria personale e collettiva.

Come gli acrobati di Apollinaire, vaga ai margini di un mondo disumanizzato alla ricerca di epifanie continue. Gli animali del poema, capaci di creare una mediazione fantastica, sono sostituiti dalle creature che ammira nei musei, come la Grande Sirena di Paul Alex Deschmacker, i disegni dei bambini, il cavalluccio marino di Desnos che compare nel film sotto varie forme. Solo i bambini in testa al corteo descritto dal poeta francese, consentono a chi li segue di continuare a sognare e Ari appare di volta in volta come un disadattato colpito da improvvisa depressione, un visionario incendiato da incontenibile commozione, una creatura schiacciata da panico invalidante.

Motivi e struttura delle fughe bachiane, che nel precedente film della regista francese regolavano l’occupazione temporanea dello spazio vissuto dalla protagonista, vengono sostituite dal più leggero contrappunto chitarristico di Fernando Sor, il cui studio riflette il lessico infantile e stupefatto a cui Ari si affida, per mezzo di numerose espressioni.
Attraversare a piedi nudi la grande piscina del Musée d’art et d’industrie André-Diligent di Roubaix diventa un gesto di giocosa libertà, tutt’uno con la contemplazione estatica e immersiva de L’uomo addormentato di Carolus-Duran. Perché i segni incorporati nell’esperienza, come la rosa in un quadro di scuola realista, vengono trasfigurati dal giovane con quella fame di esistere che non si accorda con i tempi sociali.

Léonor Serraille racconta un altro soggetto destituito, nuovo tassello nella sua galleria di personaggi liberi, ma questa volta percorre una via più radicale, in un formidabile esempio di cinema poetico che si serve di elementi e frammenti dalla storia delle arti, costantemente fuori luogo e fuori tempo, per raccontare l’uscita dai ruoli.

Persino la paternità rifiutata può diventare un evento improvviso che dal passato erompe in un nuovo presente pregno di senso. Nella costante elusione dello sviluppo, Ari vive l’intensità dell’evento prima che possa cristallizzarsi. Segue allora un flusso ondivago, lo stesso che Serraille infonde ad un film di estrema qualità soggettiva, dove il sovrapporsi di parola e gesto, flusso di coscienza e memoria, si estende alle possibilità combinatorie del nostro sguardo. Quello infantile invece può denudare ogni maschera e annientare chi finge con un carico di energia distruttiva. Ari che riesce a dialogare con i bambini, li teme quando la pressione esterna del mondo normato infetta la sua psiche e ammala il suo corpo.

La vita adulta, vincente o perdente che sia, è una predicazione dell’essere che nell’affermazione ossessiva di un principio identitario, osserva a distanza il fantasma dell’infanzia con orrore, rifiuto oppure irrisolvibile nostalgia.

Nella continua diserzione di un centro fattuale, la vita predisposta dagli altri viene interrotta da Ari con la stessa propensione del flaneur ad attivare uno choc percettivo. Più vicino all’idea di Baudelaire che alle codificazioni post-benjaminiane, Ari è bambino e creativo per la capacità di legare luoghi, sentimenti, segni culturali e personali in una matrice di traiettorie fluide.
Può riconoscersi padre utilizzando finalmente lo stesso viatico simbolico consegnatogli dalla madre, ovvero la lettura del mondo attraverso le forme e i colori, dove il tempo può manifestarsi simultaneo solo con le emozioni.

Ecco che Ari, il film di Léonor Serraille, è un esempio di cinema libero, fatto di costanti interruzioni e improvvise condensazioni, passaggi nel vuoto e perdite del tempo. Dove naufragare nel proprio è salvifica scialuppa.

Ari di Léonor Serraille (Francia, Belgio 2025 – 88 min)
Interpreti: Andranic Manet, Pascal Rénéric, Théo Delezenne, Ryad Ferrad, Eva Lallier
Sceneggiatura: Léonor Serraille
Fotografia: Sébastien Buchmann

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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