Un vecchio carcere fatiscente sperso in una vallata sta per essere chiuso e tutti i suoi detenuti trasferiti. Il luogo di destinazione di dodici di loro si rivela all’ultimo indisponibile, così un piccolo manipolo di guardie è costretto a rimanere in servizio in un edificio ormai deserto nell’attesa che anche gli ultimi detenuti vengano spostati. Lo spazio della prigionia si riduce, avvicinando fisicamente e metaforicamente carcerati e carcerieri, generando una tensione che potrebbe essere pericolosa ma anche costruttiva.
Leonardo Di Costanzo nel suo terzo lungometraggio da regista, Ariaferma, sceglie di raccontare quell’universo parallelo che il carcere. Lo fa bene, a tratti benissimo, ma nel film c’è un problema che rischia di compromettere un po’ tutta l’operazione.
Non si può però prima non lodare il modo in cui Di Costanzo costruisce il suo carcere immaginario. È un luogo che si percepisce sullo schermo, il cui spazio ha un valore e non è il mero contenitore della narrazione. Le stanze strette, i corridoi, come i contrasti tra le ombre e le luci, splendidamente fotografati da Luca Bigazzi, ci sono, il carcere-edificio rappresentato è importante come il carcere-istituzione raccontato. Un risultato fondamentale per un film che si svolge interamente in questo unico luogo, ma tutt’altro che scontato. Come non è scontato l’uso brillante delle musiche. Di Costanzo e il compositore Pasquale Scialò scelgono degli assoli free jazz di batteria la cui violenta libertà accompagna come perfetto contraltare la quotidianità dei prigionieri.
Le recensioni “Bella regia, bella fotografia” che giudicano le opere cinematografiche a pezzetti sono svilenti nei confronti dei film, perché li trattano come animali da macello, con tanti tagli diversi di diversa qualità, invece di considerarli come opere sì composite ma unitarie. Eppure era necessario riconoscere l’ottimo lavoro fatto da Di Costanzo e la sua troupe, per chiarire il valore di Ariaferma al netto del problema cui accennavamo.
Problema che risiede nel personaggio di Silvio Orlando, uno dei carcerati. Lui attore straordinario, ma sul suo Lagioia, Ariaferma scivola, precipitando nel perbenismo. Il suo ruolo nel film è quello di sentenziare. Sentenziare su tutto: sulla vita in prigione, sui carcerati, sulle guardie, sui rapporti umani, sul destino, sempre con il tono oracolare di chi crede di stare rivelando al mondo (al pubblico in sala, in questo caso) una grande verità.
Sarebbe scorretto criticare il film per la sua mancanza di crudezza; questa è una scelta consapevole, e più il film va avanti più il carcere del film sembra allontanarsi dal mondo reale per avvicinarsi a una dimensione sospesa, quasi fiabesca, evidente nella scena del black-out, quando ormai tutte le strutture imposte dall’esterno sembrano potersi sciogliersi, almeno per un attimo.
Ciò che, consapevole o meno, si fa più fatica ad accettare, è questo sguardo un po’ buonista per cui carcerieri e carcerati possono comunque trovare un rapporto umano quasi amicale perché in fondo tutti sono buoni, cancellando in un colpo solo la complessità dell’individuo-carcerato, che è umano indipendentemente dai suoi crimini e la problematicità intrinseca del ruolo del carceriere.
Anche senza scomodare Foucault, Ariaferma inciampa in questa visione semplicistica e indulgente. La sua fortuna è di essere un film che vive anche se non soprattutto del mondo che crea, autonomo dai personaggi da cui è popolato. E nel creare un mondo nel suo carcere Di Costanzo riesce perfettamente.
Ariaferma di Leonardo di Costanzo (Italia, Svizzera 2021 – 117 min)
Interpreti: Toni Servillo, Silvio Orlando, Fabrizio Ferracane, Salvatore Striano, Roberto De Francesco, Pietro Giuliano, Nicola Sechi, Leonardo Capuano, Antonio Buil, Giovanni Vastarella, Francesca Ventriglia
Sceneggiatura: Leonardo Di Costanzo, Bruno Oliviero, Valia Santella
Fotografia: Luca Bigazzi
Montaggio: Carlotta Cristiani
Scenografia: Luca Servino
Costumi: Florence Emir
Musica: Pasquale Scialò
Suono: Xavier Lavorel
Effetti visivi: Chromatica, Freestudios