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Ariaferma di Leonardo Di Costanzo: recensione

Ariaferma non è opera metaforica, nel senso riduttivo e didascalico del termine, perché scava nella storia politica e civile dello spazio carcerario, attraverso una presenza materiale che necessita di uno sguardo ulteriore per tornare ad essere parte integrante della polis. Note sul bellissimo film di Leonardo Di Costanzo; la recensione di Michele Faggi

Il carcere non è solamente identificabile attraverso la dimensione edilizia. Il carcere ha un corpo vivo che prende forma quando la concezione architettonica degli spazi che lo costituiscono lascia intravedere un luogo di interazione sociale, possibile o il più delle volte, negata. Questo corpo, con la forma teatrale e scopica del panopticon per quanto riguarda le strutture più antiche edificate alle fine dell’ottocento, viene concepito secondo principi rigidissimi che tendono a favorire l’isolamento degli ospiti e quindi a negare qualsiasi forma di socializzazione. Una concezione, tra controllo e isolamento, che epura la città stessa della sua complessità, confinando in una discarica il disagio, la malattia e tutte le vite sul bordo.

In Ariaferma, Leonardo Di Costanzo crea le condizioni visive e concettuali per restituirci questa idea di spazio, suggerendoci prima ancora di esplorare i recessi dell’ex carcere di San Sebastiano a Sassari, che il sovraffollamento non si affronta facendo il calcolo matematico dei metri quadrati di spazio vitale a disposizione per ogni detenuto. Se si considera la storia della Casa Circondariale, la chiusura della struttura e il trasferimento degli ospiti in un nuovo carcere è tutt’altro che questione simbolica o allegorica. Il regista apolide ischitano parte quindi da questo luogo di fantasmi, fatto di materia concreta, cemento fatiscente, metallo rugginoso e una vegetazione ormai indomita, ripopolato da 12 detenuti rimasti temporaneamente esclusi dall’esodo verso la nuova destinazione, per carenza di celle.

I dodici uomini di Ariaferma sono quindi un’eccedenza; sopravvissuti momentaneamente alla macelleria di stato, rimangono sospesi in una dimensione di passaggio insieme alla polizia penitenziaria, dialogando per la prima volta con il corpo vivo dell’edificio.

Insisto su questo aspetto perché il film affida alla descrizione dello spazio un ruolo centrale, dove le stanze, i corridoi, i passaggi occultati della Casa circondariale si aprono alla vista come organi e arterie di un mostro ferito.

Le celle aperte disposte lungo le aree dismesse nella loro assenza di vita, raccontano meglio di qualsiasi altra cosa l’umanità sofferente che le ha occupate, come un organismo che ancora trattiene tutto il dolore. Sono i lavandini corrosi dal tempo, lo sporco attaccato alle pareti, il dispiegamento di un luogo che non ha conosciuto alcuna funzionalità sociale, a mettere insieme i segni di questa stessa negazione. Ariaferma quindi come ristagno e assenza di spirito, quasi si attraversassero i resti di un campo di concentramento, con l’intollerabile persistenza della morte tra oggetti ed elementi materiali.

Questa totale separazione con la società civile, Di Costanzo la mostra costantemente, indugiando su stanze, celle e corridoi, come se fossero le membra del personaggio principale del suo film. All’interno, è solo la dinamica relazionale, aspra e mai riconciliata, a investire di senso quel perimetro, ed è un meccanismo cangiante che prima di tutto rivela la vitalità di un metodo drammaturgico.

Tutt’altro che conciliante, Ariaferma dispone l’interazione tra personaggi creando contrapposizioni che non hanno una sola direzione e che si estendono fino a spezzare confini apparentemente insormontabili.

Non è solo il confronto tra attori non professionisti e grandi interpreti, ma la collocazione dei due approcci e il progressivo lavoro di sottrazione che in qualche modo costringe Toni Servillo, Silvio Orlando e Fabrizio Ferracane ad una riconfigurazione delle proprie potenzialità, quando due mondi irraggiungibili si osservano allo specchio.

Orlando è l’unico professionista tra le file dei carcerati, tramite fondamentale della scala gerarchica che consente di innescare la mediazione tra il mondo fuori e la cella in virtù di un’identità sociale che ha assunto un ruolo preciso, l’unico in grado di confrontarsi con gli altri disponibili, quelli indicati dalla divisa di stato.

Ecco che Ariaferma diventa un vero e proprio esperimento di sabotaggio della dimensione attoriale tradizionale, nel confonto aspro tra maschera sociale e identità senza volto, tanto che la compassione, l’empatia, l’umana misericordia per i derelitti, così come l’irriducibilità del controllo punitivo, l’assenza di umanità, la crudele simmetria rispetto alle regole, attraversano i volti e i gesti di tutti, guardie e carcerati.

Tutt’altro che didascalico, al personaggio di Silvio Orlando sono affidati dei fulminanti haiku che reagiscono con il volto di uno straodinario Toni Servillo, nel definire una realtà indefinibile, nel sospendere il ruolo connotativo della parola in uno spazio indicibile.

L’osservazione delle formiche operaie, l’idea del carcere come qualcosa che annichilisce detenuti e guardie, unificandoli nell’esperienza di una non esistenza, il pane inzuppato nella pomarola come passaggio da memoria a gesto, la stessa cucina, tra coltelli e distanza, i frutti della terra raccolti tra le erbe infestanti dell’orto abbandonato; frasi, gesti e interazioni che non sono sentenze, ma più spesso interruzioni, luoghi di una memoria lontana e sospesa, rimemorazioni soggettive che cercano disperatamente un contatto con una collettività negata.

Questa dinamica, consente a Servillo e Orlando di impostare una polarità tensiva che ci conduce dagli spazi marginali del carcere fino al centro dell’occhio panottico, sguardo artificiale da cui promana l’idea stessa di sorveglianza disumanizzata.

Questa pupilla a un certo punto viene inquadrata dall’alto con la fotografia livida di Luca Bigazzi, alla fine di una sequenza dove Di Costanzo si serve di “Clapping Music“, la composizione scritta da Steve Reich nel 1972 per una coppia di performer, singoli o in gruppo, ed eseguita con il solo battito delle mani. Questa musica del corpo, regolata da principi di simmetria, regolarità e recursività che vengono costantemente rimessi in discussione grazie ad un progressivo spostamento dell’impulso ritmico, suggerisce l’anima poliritmica della stessa orchestrazione drammaturgica, nelle sue potenzialità, frenate e impovvisamente rese possibli dal contesto.

Quel battito di mani e di corpi, che viene in qualche modo associato anche alle proteste per la qualità del cibo e per la luce che improvvisamente viene a mancare, diventa uno scambio attoriale polifonico, basato su gradazioni e diverse esperienze, quando viene allestita la tavolata al centro dell’occhio panottico. Un’eccezione, fuori dalle celle, che scompagina le attese, ma rivela anche la difficile conciliazione tra diverse percezioni della sofferenza.

Quello che rappresenta La Gioia, il detenuto interpretato da Silvio Orlando, per la guardia accecata dal suo stesso rigore interpretata da Ferracane, trova una corrispondenza nello sguardo rivolto contro la figura più tragica del film, quella del vecchio detenuto mangiato dalla demenza senile, la cui supposta pedofilia lo rende inacettabile per alcuni dei detenuti. La Gioia è un puparo, non bisogna fidarsi né si può accordare alcuna forma di umanità al suo agire, l’anziano divorato dall’oblio è sporco, marcio, laido e non è degno di partecipare all’unica mensa collettiva. Eppure, nello sguardo impermeabile del personaggio interpretato da Ferracane c’è una luce che oltrepassa la furia giustizialista, ed emerge quasi sempre nel confronto con lo sguardo di Toni Servillo, capace di incendiarsi e di incendiare, oppure nell’empatia inaspettata con il detenuto più ostico.
Non importa che questa arrivi dal percorso apparentemente più sghembo e deviato, perchè come per il pezzo di Reich, integra diversi stadi dell’esecuzione performativa, come fossero diversi gradi della percezione soggettiva.

Difficile allora non commuoversi, nel senso etimologico di mettere in movimento le proprie stereotipie, di fronte al percorso di uomini, da una parte e dall’altra dell’occhio di sorveglianza, ridotti al livello di bestie.

Ariaferma non è allora opera metaforica, nel senso riduttivo e didascalico del termine, perché scava nella storia politica e civile di un luogo, attraverso una presenza materiale che necessita di uno sguardo ulteriore per tornare ad essere parte integrante della polis.

Ariaferma di Leonardo di Costanzo (Italia, Svizzera 2021 – 117 min)
Interpreti: Toni Servillo, Silvio Orlando, Fabrizio Ferracane, Salvatore Striano, Roberto De Francesco, Pietro Giuliano, Nicola Sechi, Leonardo Capuano, Antonio Buil, Giovanni Vastarella, Francesca Ventriglia
Sceneggiatura: Leonardo Di Costanzo, Bruno Oliviero, Valia Santella
Fotografia: Luca Bigazzi
Montaggio: Carlotta Cristiani
Scenografia: Luca Servino
Costumi: Florence Emir
Musica: Pasquale Scialò
Suono: Xavier Lavorel
Effetti visivi: Chromatica, Freestudios

RASSEGNA PANORAMICA
Voto
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Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.
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