“Armonie contro il giorno. Il cinema di Béla Tarr” è il primo libro pubblicato in Italia sul regista ungherese, autore di prima grandezza ma di scarna bibliografia.
Merito dunque a Marco Grosoli che, con la collaborazione di Michael Guarneri per le interviste in Appendice, ha pubblicato di recente per i tipi di Bébert Edizioni, inaugurando così una collana, “24 fps (24 fotogrammi per secondo)”, dedicata al cinema dalla giovane casa editrice nata a Bologna nel 2012.
Critico cinematografico impegnato in un post-dottorato in Film Studies all’Università del Kent, autore di saggi sul cinema e collaboratore di riviste del settore, Grosoli compone una monografia dalla struttura agile, focalizzata sull’opera di Béla Tarr attraverso un approccio metodologico aperto e reticolare, che adotta con competenza angolazioni critiche in parte anche inedite, come la sezione in cui studia il rapporto del regista con la pittura suprematista di Malevich.
La ricognizione filmografica è preceduta da brevi cenni biografici, pochi flash sul percorso di formazione del regista e sul suo retroterra storico in una patria, l’Ungheria, appartenente al blocco sovietico.
Lo scontro con il “realismo socialista” e il successivo approdo in Germania, gli incontri e le collaborazioni, le possibilità aperte dalla caduta del Muro e il successo mondiale fino, nel pieno di un’ascesa che sembrava incontenibile, alla decisione irrevocabile di chiudere l’attività registica per dedicarsi alla sua ultima creazione, la Film Factory della Sarajevo Film Academy: tutto questo appartiene ad una sezione biografica creata non tanto per assolvere ad una prassi consueta, parlare della vita per inquadrare il personaggio, quanto per aprire prospettive fondamentali per capire la discontinuità e l’unicità del caso Tarr.
Una dichiarazione in esergo apre infatti il libro, quella con cui il regista, durante un incontro con il pubblico del New York Film Festival, alla fine di ottobre del 2011, comunicò la sua intenzione di abbandonare l’attività di regista.
Presentava il suo ultimo film, A torinói ló (Il cavallo di Torino) già Orso d’Argento a Berlino, e le sue parole fecero il giro del mondo lasciando tutti nello sconcerto: “Sì, davvero è il mio ultimo film. Per una ragione molto semplice, che magari dal film non si vede ma veramente è così. Davvero non voglio ripetermi…”.
Nell’intervista rilasciata il mattino stesso al New York Times aveva detto: “Con A torinói ló sento di avere chiuso un ciclo; dopo questo film non potrei fare altro che ripetermi. Penso di aver detto quello che avevo da dire. Quando pianto la cinepresa per terra ormai non mi viene in mente più nulla di nuovo…”.
Grosoli parte dunque dalla fine, l’ultimo atto della vita da regista, e non poteva essere diversamente, parlando di Béla Tarr:
“ Alla luce di ciò un lavoro monografico su questo autore non solo può, ma deve cominciare dalla fine. Ogni suo film, da ben prima del 2011, è un annuncio della fine, un sigillo apposto sulla certezza che, davanti a noi, non c’è nulla.”
L’assenza di prospettiva teleologica nell’opera di Tarr impone che si parta dalla fine, punto in cui si chiude il cerchio che è la forma del suo cinema, una “spazializzazione del tempo” che nell’assenza di direzionalità nega alla storia qualsiasi forma di narratività.
Per trenta anni e in ogni film il regista non ha fatto che ribadire la preponderanza dello spazio e la negazione del tempo, il carattere fittizio di una divisione di questo in sequenze ordinate fra inizio, sviluppo e fine e la sua sostanziale immobilità, pur nell’apparente cinetismo delle immagini.
La reale impossibilità di uscire dal cerchio della ripetitività inerte delle vite messe in scena e il vuoto esistenziale che si apre ad ogni passo verso qualcosa che meta non è, resta la sostanza più autentica del cinema di Béla Tarr e intorno a questa Grosoli si muove con un’indagine estremamente minuziosa e illuminante, esegesi di grande respiro per ampiezza di riferimenti culturali e perspicacia critica.
Coerente con l’impostazione data nell’incipit, dopo i brevi cenni biografici e prima di analizzare i lungometraggi, l’autore fa una puntualizzazione importante introducendo Prologo, uno dei 25 cortometraggi di cinque minuti prodotto da Lars Von Trier nel 2004 per il lungometraggio collettivo Vision of Europe.
In Prologo, per soli cinque minuti e a metà circa della sua carriera di maggior successo, dopo alcune tra le sue prove più significative come Perdizione (1987), Sátántangó (1994), Le armonie di Werkmeister (2000), Tarr ci dice tutto quel che c’è da dire sul suo cinema e Grosoli lo mette in accurata evidenza, sottolineando qualcosa che non si stancherà mai di ripetere fino alla fine, un punto che non va assolutamente dimenticato di fronte a questo cinema, pena la sua incomprensibilità.
Si tratta di ciò che definisce “…assoluta inseparabilità del suo straordinario formalismo stilistico da un lato, e dall’altro di un umanesimo elementare ma incontestabile, che insiste sulla dignità e sull’incancellabile valore umano dei reietti e degli outsider. Se ci si vuole avvicinare al cinema di Béla Tarr, bisogna innanzitutto guardarsi dal separare queste due dimensioni”.
E’ questo in definitiva l’approdo critico più interessante, quello che mostra di aver interpretato la verità più autentica dell’opera di Tarr, universo in cui alle ragioni di un altissimo magistero stilistico si coniugano le istanze di un umanesimo eterno, capace di sopravvivere a tutte le disfatte. “Anche per questo [A torinòi lò] è davvero il film definitivo di Béla Tarr, quello che riassume compiutamente tutto ciò che il resto sua filmografia lasciava intravedere”, aggiunge Grosoli nell’ultimo capitolo.
Prima di congedarsi dal lettore, dopo aver affrontato a tutto campo l’opera di Tarr partendo dalle prime esperienze, i lungometraggi d’inizio (Nido familiare, Macbeth e Almanacco d’autunno) e concludendo con Il cavallo di Torino, la monografia lascia spazio all’Appendice curata da Michael Guarneri. E’ uno sguardo interessante e vivace sull’attualità, fatto di interviste ottenute via mail o per telefono dallo stesso Tarr e dai suoi due collaboratori di sempre, Fred Kelemen direttore della fotografia e Mihály Víg, autore di tutte le colonne sonore dei suoi film, fin da Almanacco d’autunno.
La storia di Béla Tarr e del suo grande cinema approda così ad un presente in cui, dice il curatore: “ … c’è continuità diretta fra il film director e lo school director, tra ciò che avveniva sui set dispersi nelle pianure ungheresi e ciò che avviene oggi nella Film Factory di Sarajevo.”
Una grande scuola in cui i giovani apprendono qualcosa che va molto oltre il mestiere di cineasta: “Quello che cerco di insegnare ai giovani studenti della Sarajevo Film Academy è essere sè stessi e fare ciò che sentono e che credono sia giusto fare … Io non faccio lezione, non chiedo loro di sedere in un’aula e starmi ad ascoltare mentre parlo di questo e di quello… Io non insegno cose o nozioni ecc. Io cerco di creare un’atmosfera all’interno della quale i giovani possano sviluppare la loro personale visione e tradurre la loro sensibilità in film.”.
Parole di un artista che sa che il Cinema e l’Arte non si possono insegnare e che con il cinema ha detto tutto quello che aveva da dire, fino alla fine.
Oggi che fare il regista è un capitolo chiuso, sono quanto di più illuminante per capire la sua persona di lucido protagonista della nuova topografia dell’uomo contemporaneo, fermamente convinto della necessità profonda di un recupero di umanità autentica in quello squarcio sempre visibile nella “dialettica degli estremi che ci obbliga a discernere bagliori luminosi anche dentro la fine del mondo”.