Al centro del lungometraggio, la quotidianità della mistica, erborista e profetessa balcanica Vangelija Pandeva Dimitrova, conosciuta come Baba Vanga, un’analfabeta che, perdendo la vista, acquisì la chiaroveggenza, una sorta di Tiresia contemporanea interpretata in modo superbo dalla francese Virginie Roch, anche lei rimasta parzialmente cieca in seguito a un incidente.
Guardare ‘Baba Vanga’, un’opera d’impostazione potentemente anti-narrativa, è un’esperienza sensoriale piuttosto che intellettuale: il film somiglia a una video-installazione di quelle che trovano spazio nei musei d’arte contemporanea ed è, in questa prospettiva, che è giusto accostarvisi. La Niemczyk si è formata nell’ambito delle discipline figurative e il debito con il sostrato pittorico dell’autrice è evidente: la resa plastica dell’ambiente in cui la mistica si muove materializza un volume emotivo e riconduce alla carne, alla natura, allo spessore dell’esistenza viva una ricerca insieme estetica e filosofica che s’avvale del colore come principale strumento.
La palette dominante è satura, piena e organica: predomina il verde che, nella cromatologia, è per eccellenza il colore della natura e della vita, di ciò che nasce e si consuma, spegnendosi nello stesso alveo da cui è scaturito. In uno dei vertici lirici del film, la protagonista addenta con un volto sofferente e allucinato – l’iconografia di riferimento è quella dreyeriana, Baba Vanga è una nuova incarnazione di Giovanna D’Arco – una mela non a caso verde e i denti scavano la polpa con una contrizione profonda, un’intima consunzione per il peccato originale che si rinnova, per l’innocenza che ancora una volta si sacrifica alla conoscenza, un dono mortifero che incatena alla croce del disincanto.
Il grumo ultimo del film è, in fondo, proprio questo: come in una tragedia sofoclea, anche qui sapere è soffrire, vedere troppo è sentire troppo, conoscere ora quel che accadrà domani è agonizzare in anticipo, morire ogni giorno.