Backstage non è esattamente un road movie, come ci è capitato di leggere da più parti. È una definizione sbrigativa che coglie l’aspetto più evidente del lavoro diretto da Khalil Benkirane insieme all’attrice e ballerina Afef Ben Mahmoud.
La compagnia di danza che si muove lungo il Marocco per portare in tour un nuovo spettacolo, viene raccontata proprio quando il viaggio si ferma e non può avere luogo nella dimensione orizzontale dello spostamento.
L’azione danzante che introduce il film con un lungo segmento dentro lo spettacolo stesso, è già un innesto tra i flussi gravitazionali dei corpi e alcune finestre spalancate sugli epifenomeni naturali, grazie ai video wall espansi oltre le dinamiche e le prospettive del palco.
In quella performance, sono già visibili armonie e distonie tra i danzatori in gioco, attraverso la velocità del gesto e il repentino assestamento dello sguardo sul movimento dei corpi.
Uno strappo di quel complesso intreccio di gamme energetiche avviene quando la fiducia tradita durante una presa, ferisce Aida, mettendo a rischio la prosecuzione dello show.
L’incipit è quindi proiettato verso un orizzonte incerto, già negativo rispetto alla strada maestra per condurre a destinazione lo spettacolo.
Il breve percorso del pullman, carico di una tensione palpabile a causa dell’incidente doloso, si arresta con una frenata brusca per evitare un animale notturno e le gomme lacerate del veicolo. La prosecuzione non è possibile.
Mentre l’autista si inabissa, letteralmente, nell’oscurità per cercare un supporto tecnico dal villaggio più vicino, i membri della compagnia rimangono nel cuore della foresta e decidono di affrontare un viaggio off-road, penetrando lo spazio possibile della foresta; un vero e proprio fuori campo rispetto alla strada principale.
Il movimento, nel progressivo accordarsi con la percezione sensoriale della natura, è quindi un’interiorizzazione del viaggio, dove lo spazio assume le caratteristiche plurali e polimorfe che sono anche motore fondante della danza contemporanea.
L’habitat selvaggio è quindi più ricco di una traiettoria, perché sostanzia l’interno in relazione con l’esterno, non solo nel dialogo dei corpi con il circostante, ma anche tra le forme della civiltà e i suoi margini.
Buona parte della letteratura on the road è ricerca dell’interiorità oppure negazione traumatica del sogno connaturato al movimento, ma il lavoro di Benkirane e Mahmoud, dissolve sin dall’inizio la retorica della strada, mostrandoci un buco nero impenetrabile.
Si tende allora alla scoperta della luce per altre vie, come ricerca delle proprie pulsazioni. Questa fluidità musicale incorpora i suoni del bosco, grazie al lavoro di sound design che riconnette l’attività della danza allo scorrimento del tempo.
Non c’è più la separazione deputata tra architettura visuale e le linee direttrici del palco, ma una composizione soggettiva del ballo come continuità organica tra spazio, gesto e scavo interiore.
La scrittura drammaturgica allora, diventa essa stessa concentrazione di gesto e parola. Una carezza, uno sguardo, l’abbraccio che cura le ferite, sono elementi scorporati dal fraseggio complessivo, il cui senso riconduce la compagnia ad un dialogo più profondo rispetto ai tempi febbrili delle committenze.
Del dissidio e del connubio tra cinema e danza lungo più di un secolo, Benkirane e Mahmoud comprendono la necessità di espandere la residenza delimitata dalla scena, in una sequenza di spazi abitabili che possano coreografare altri mondi, non direttamente ed esclusivamente legati al piano del visibile.
C’è ovviamente alla base la spinta rituale e radicale di Pina Bausch, anche negli sconfinamenti tra natura e spazio performativo, ma è comunque stimolante il continuo riverbero sui corpi delle componenti aurali e visuali, inclusa la luce davvero fuori dall’ordinario fotografata da Benjamin Rufi.
Entro un processo che gli stessi autori hanno definito decostruzione della bellezza, ne viene incamerata a nostro avviso sin troppa, soprattutto quando il limite con l’oscurità genera una sostanza volumetrica tangibile intorno ai corpi visibili.
Si ha allora la sensazione, nell’osservare questi corpi in movimento scolpiti nei colori accesi, che quello spazio possibile venga fortemente teatralizzato e forzato verso l’epifania simbolica, rispetto alle possibilità metamorfiche dei presupposti e dell’ambiente naturale.
L’aggressione delle scimmie, il cervo all’orizzonte in connubio con l’alba, anticipato per tutto il film da un suono gutturale e minaccioso, sono appigli seduttivi sin troppo chiari. La scrittura, invece di decostruire il teatro in una successione di spazi possibili, finisce allora per teatralizzarli.
Rimane comunque al centro la forza energetica e creativa del movimento, in alcuni momenti accordato splendidamente con suoni e luci, fuori dalla strada che vorrebbe chiudere il senso e il mistero.
Backstage di Afef Ben Mahmoud, Khalil Benkirane (Marocco, Tunisia, 2023, 102′)
sceneggiatura: Afef Ben Mahmoud
fotografia: Benjamin Rufi
montaggio: Rawchen Mizouri, Skander Ben Ammar, Afef Ben Mahmoud
Interpreti: Sondos Belhassen, Afef Ben Mahmoud, Saleh Bakri, Sidi Larbi Cherkaoui, Sofiane Ouissi, Hajiba Fahmy, Ali Thabet, Abdallah Badis, Salima Abdel-Wahab, Nassim Baddag