“Que reste-t-il de nos amours” canta Charles Trenet sui titoli di testa, mentre una macchina da presa aerea stringe sul cancello, serrato, della Cinématèque. La canzone è del 1942, ma siamo nel 1968. La dedica è a Henri Langlois, mitico direttore della Cinémathèque, rimosso dal suo incarico per volere del ministro della cultura André Malraux, quattro giorni dopo l’inizio delle riprese, il 5 febbraio 1968. Il 9 febbraio, giorno dell’allontanamento di Langlois, Truffaut – poi eletto tesoriere del comitato di difesa – arriverà sul set con due ore di ritardo. Questo è il clima, di tensione e allerta, in cui nasce la prima “commedia” di Truffaut, le cui riprese si concluderanno a marzo dello stesso anno, quando il maggio francese è ormai alle porte e il suo autore è troppo impegnato a scrivere infiammati articoli di protesta e a partecipare a riunioni per visionare i giornalieri. Eppure Baci Rubati non è un film politico. O forse lo è, ma nel suo modo più nostalgico che polemico: “sono il disimpegno personificato”, diceva Truffaut, ponendosi agli antipodi del sodale Godard. Dopo aver indugiato per qualche istante sulla scritta “Relache”, affissa sul cancello della Cinématèque, la macchina da presa si allontana. Traspare l’affetto, più che la rabbia. Con uno stacco di montaggio, siamo sospesi nell’aria, di fronte alla Tour Eiffel, per poi scendere di nuovo, verso un’altra finestra/cancello/grata. Nuovo stacco e stavolta si entra: la macchina da presa si aggira in una stanza in penombra – una cella cittadina dove è radunato un gruppo di soldati – per poi inquadrare il libro che Antoine Doinel (Jean-Pierre Léaud) sta leggendo. E’ Le lys dans la vallée di Balzac.
Forse il film sta tutto nelle tre inquadrature iniziali. Il regista, che già aveva in testa gli impegni successivi – con i copioni de Il ragazzo Selvaggio e La mia droga si chiama Julie in tasca –, ne parlerà a volte come di un’opera minore, un divertissement spiritoso e forse frettoloso, che fa da contralto all’amarezza de I 400 colpi. In Baci Rubati, terzo capitolo delle avventure di Antoine Doinel – segue il corto Antoine e Colette (episodio del collettivo L’amore a 20 anni) e precede Non drammatizziamo…è solo questione di corna –, l’alter ego di Truffaut è alle prese con il difficile inserimento nella vita adulta. Fra lavori improbabili, amori fugaci e magnifiche ossessioni, Antoine cerca di riconquistare, con alterne fortune, il cuore della fidanzatina Christine Darbon (Claude Jade). Cacciato dall’esercito farà il portiere d’albergo, ma si ritroverà senza lavoro dopo aver involontariamente svelato la relazione adulterina di un’ospite. Da lì finirà, senza sceglierlo, in un’agenzia investigativa privata. Alla fine – ma fino a quando? – riparerà televisori.
Baci Rubati è, soprattutto, un romanzo di formazione intessuto di nostalgie letterarie, una commedia che guarda a Lubitsch, girata per le strade di Parigi con un budget ridottissimo e una sceneggiatura esilissima, scritta da Truffaut con Claude de Givray e Bernard Revon. Il regista si diverte a sperimentare giochi di ellissi, inquadrature lunghe, momenti comici, e dialoghi surreali, spesso improvvisati dagli attori. Come in un sogno, i tempi si dilatano e si contraggono a piacimento e senza logica apparente. Si seguono piste diverse, i personaggi, spesso sopra le righe o indecifrabili, prendono il sopravvento su una trama appena abbozzata, in cui tutte le svolte sono frutto del caso.
Non c’è una storia da raccontare, solo personaggi da pedinare – e il gioco, fra regista e Antoine/detective improvvisato e molto sbadato non potrebbe essere più scoperto –, figurine che cambiano forma continuamente e sono costantemente alla ricerca di amore, in tutte le sue forme. L’educazione sentimentale di Antoine passa attraverso ogni tipo possibile di amore: la prostituta, la fidanzata, e la donna come magnifica ossessione – Madame Tabard (Delphine Seyrig, la musa di L’anno scorso a Marienbad, qui in un insolito ruolo “comico”) –, un topos nel cinema di Truffaut.
Come gli intellettuali della sua generazione – quegli stessi che si ritrovarono uniti a protestare contro la rimozione di Langlois –Antoine non sa e non vuole stare nei meccanismi della vita borghese. Più che nello spirito rivoluzionario, Antoine si rifugia nei propri miti letterari e nelle proprie infatuazioni romantiche, restando come sospeso in una dimensione fuori da tempo. E’ in questo senso di eterna precarietà che sta il senso del film. Nella scena finale, proprio quando la loro storia sembra normalizzarsi (ma L’amore fugge, ci ricorderà Truffaut dieci anni dopo), Antoine e Christine, seduti su una panchina e per lo più ripresi di spalle, incontrano uno sconosciuto “non più così estraneo” che, dopo aver seguito per giorni Christine (un altro pedinamento), la invita a scindere i propri legami provvisori con persone provvisorie per legarsi (per sempre) a lui: tutti tradiscono, “io sono definitivo”. Quando il provvisorio scambia uno sguardo con il definitivo, a sembrare folle è il secondo ma, sembra pensare Antoine mentre si allontana, chissà che non dica qualcosa di vero.