Quando l’11 novembre del 1958 André Bazin muore a soli 40 anni, François Truffaut, pupillo e allievo, cominciava le riprese de “I quattrocento colpi“, suo primo lungometraggio. Quella dedica sotto la Tour Eiffel dopo tre minuti di traveling sancisce un legame che è già il futuro del cinema a venire. Non solo quello truffautiano, ma soprattutto la riscrittura di quel pensiero teorico attraverso lo spazio palindromo nei film di Rivette, la ricerca dell’intangibile in quelli di Rohmer e la lingua godardiana in divenire.
Il materialismo del cattolico Bazin, formatosi nei primi cineclub parigini attraverso i film di Chaplin, il neorealismo italiano, i formalisti russi, le opere degli amati Von Stroheim, Buñuel, Kurosawa, individua una possibile ontologia del Cinema nella traduzione del reale, anche quando questo resiste ad una sua codificazione. Il piano sequenza, il suono in presa diretta, la profondità di campo, come opposizioni radicali alla temporalità artificiosa del montaggio, ma anche segni di una lingua impura, necessariamente libera da specificità soffocanti e quindi in una continua relazione aperta con l’insieme delle arti.
Giancarlo Sepe, sperimentatore indomito dello spazio teatrale, interroga la parola Baziniana e la stessa nozione di realtà, sollecitando le possibilità del punto di vista con una messa in scena che è anche decostruzione del flusso di coscienza. Tracce disseminate nella pagina scritta e rimesse in vita nel gioco mutevole dei corpi investiti dalla luce, dove il confine tra sogno e visione post-mortem è labilissimo. Ecco perché Bazin è un lavoro straordinariamente lieve, nel suo accumulo di gesti e movimenti, ma anche durissimo, per la vitale capacità di ferire.
Ferita sempre aperta è quello schermo bianco al centro di una scena nuda, trasformata dal potenziale metamorfico delle luci. Niente viene proiettato, solo le ombre dei corpi risucchiati da una polarità magnetica, che separa i vivi dai morti, senza definire da quale parte del diaframma ci troviamo. L’immagine allora è sempre al di là, fuori dal vortice centripeto dello schermo, esonda nel sovrapporsi dell’attività mnestica, crea la scena per la presenza dei corpi che danzano, si toccano, si uccidono.
In questo sogno al di là del reale ricombinato dal potere, il Bazin di Sepe ci invita a ritrovare l’ansia della libertà. Ecco perché tutto quello che viene sollecitato, da Les Enfants du Paradis all’irrappresentabilità del coito, dalla profondità di campo de La Regle Du Jeu renoiriana, all’esplosione vitalistica e assurdista, à la Camus, di una canzone di Charles Trenet, tende verso una filosofia combinatoria, assolutamente rigorosa nella scelta dei frammenti, ma libera da una scrittura che non sia quella del dibattersi dei corpi vivi nello spazio disegnato e improvvisamente negato dal gioco illuminotecnico.
La luce che investe lo schermo allude ad altre sperimentazioni e spinge ad oltrepassare il principio di passività spettatoriale dove il cinema sembra morto, ma è ancora vivissimo nello scatto improvviso della volontà creativa. Quella di Sepe, che lo riconduce nello spazio teatrale continuamente sfondato, sottoposto a sovversioni telluriche e riconfigurato senza soluzione di continuità, come se fosse il rito di passaggio tra vita e teatro del cinema di Rivette.
Demiurgo socratico in vita, Bazin ci traghetta aldilà dello spazio mentale di un Cinema ancora da riempire, con la voce e il corpo elettrico di Pino Tufillaro, a cui Sepe affida una sintesi del pensiero lasciatoci dal grande teorico francese. Ma non è la mimesi di una storia biografica, quanto la volontà di spalancare un abisso a partire da intuizioni che ancora ci interrogano su cosa siamo, rispetto a quelle immagini.
Che cosa è il Cinema? Un interrogativo ancora aperto nella trasformazione accelerata della macchina celibe tecnologica, quella che lo stesso Bazin guardava con sospetto. In questo senso, il passato entro cui sembra confinato il lavoro di Sepe, non ha un’aura nostalgica, perché si confronta anche con l’orrore del vuoto.
E tutti quei corpi, quando smettono di cantare, quando non sembrano più investiti dalla furia di un balletto meccanico che può, come la morte, ripetersi infinite volte, si raggruppano in silenzio davanti a quel totem bianco. L’immagine è nella mente. Nell’aria invece, un segnale monofonico minaccioso, quella nota fissa a 400 Hz che accompagnava l’unico momento di ripensamento dell’immagine telepresente.
[Foto dell’articolo di Manuela Giusto]
André Bazin è stato il creatore dei “Cahiers du cinema” e colui che ha trasformato i giovani critici rendendoli poi registi, creando la nouvelle vague. Critico e teorico del cinema, amava dire che il cinema dovrebbe esprimersi tra Lumière e Méliès: un insieme tra didattica e fantasia. Come in un film surreale lo spettacolo di Giancarlo Sepe, con cui festeggia i 50 anni di attività del suo Teatro La Comunità, non ha una narrazione logica, anzi, sembra il racconto di un uomo che sente di dover morire, e in quel momento, per paura di dimenticare qualcosa, parla della necessità del cinema e della sua arte. Non è detto che quel che succede sulla scena sia la verità: Bazin potrebbe essere anche una metafora dell’intellettuale, un diffidato, uno schedato dall’establishment, uno che non raggiungerà mai il potere. Gli sono vicini la moglie Janine (produttrice cinematografica) e i personaggi dei suoi film preferiti: tra Clair, Renoir, Carné…
uno spettacolo di Giancarlo Sepe
con Giuseppe Arezzi, Marco Celli, Margherita Di Rauso, David Gallarello, Claudia Gambino, Francesca Patucchi, Federica Stefanelli, Guido Targetti e con Pino Tufillaro
scene Alessandro Ciccone
costumi Lucia Mariani
disegno luci Roberto Bonfantini
musiche Davide Mastrogiovanni e Harmonia Team
di e per la regia di Giancarlo Sepe
produzione Teatro La Comunità
coproduzione Teatro della Toscana
in collaborazione con Diana OR.I.S
Durata 1 ora
26 ott 2022 ore 21.00
27 ott 2022 ore 19.00
28 ott 2022 ore 21.00
29 ott 2022 ore 21.00
30 ott 2022 ore 16.00
Biglietti e prevendite: Bazin via Vivaticket