venerdì, Novembre 22, 2024

Beautiful Beings (Berdreymi) di Gudmundur Arnar Gudmundsson: recensione #Berlinale72

Guðmundur Arnar Guðmundsson, al suo secondo lungometraggio, torna sulle tracce della formazione adolescenziale, spostando in modo evidente l'attenzione sulle origini di una fratellanza maschile tossica, modello acquisito e imposto alla nuova generazione. Cerca quindi di infrangere lo schema dall'interno, trasformando progressivamente il senso e la polarità del gesto violento, dove nel precedente Heartstone era la percezione dell'identità di genere ad assorbire e spiegare esplicitamente, la difficoltà di stare al mondo. Nella sezione Panorama della Berlinale 2022

Non c’è spazio per i sogni nella suburbia islandese descritta da Berdreymi. Nonostante questo, la dimensione onirica minaccia il sonno e lo stato di veglia del giovane Addi. Sono intrusioni metamorfiche, che gli consentono di cambiare la morfologia del paesaggio naturale oppure di fondersi con esso, quasi fosse una terra di mezzo che preme dai margini per ricordare al ragazzo la comunione con una natura bellissima e ostile.

Introdotta con le immagini sfumate di un sogno, la soggettiva interiore di Addi sembra l’unica possibilità di fuga rispetto ad una realtà collettiva segnata inesorabilmente dalla violenza e dalla degradante claustrofobia del paesaggio urbano.

Guðmundur Arnar Guðmundsson, al suo secondo lungometraggio, torna sulle tracce della formazione adolescenziale, spostando in modo evidente l’attenzione sulle origini di una fratellanza maschile tossica, modello acquisito e imposto alla nuova generazione. Cerca quindi di infrangere lo schema dall’interno, trasformando progressivamente il senso e la polarità del gesto violento, dove nel precedente Heartstone era la percezione dell’identità di genere ad assorbire e spiegare esplicitamente, la difficoltà di stare al mondo.

La violenza, già parte dell’universo poetico del regista islandese, esplode allora con estrema brutalità e si estende a tutte le relazioni, ai ricatti del vivere sociale, ai disastrosi equilibri famigliari, che raccontano una società irrimediabilmente annichilita nell’abuso.

Senza indugiare sul loro abisso, Berdreymi segue il girare a vuoto di un gruppo di giovani ragazzi, mantenendo un passo indietro rispetto a quel compiacimento immersivo che caratterizza certo tipo di immaginario.

Cinema fisico, ma nell’accezione migliore per quanto riguarda i momenti più riusciti, ingaggia un corpo a corpo incessante con le nostre stesse stereotipie, rivelando con i colpi, le botte e le pulsioni distruttive, un drammatico bisogno d’amore. Riesce allora a raccontare la spinta erotica di Kolli, il più violento del branco, nella ricerca assoluta dello scontro come necessità di risolvere i mali del mondo; una prospettiva distorta della fratellenza, ma che emerge attraverso i gesti e le azioni più estreme, con una luce di adamantina purezza.

Con modalità opposte, il percorso di Bulli, il più fragile della compagnia, imposta il tono del film attraverso la storia di abusi che ne segna il destino. La scuola, sistema assente quanto la famiglia, è il primo teatro d’orrore nel film del regista islandese, descritta con la funzionalità diretta e causale del rito di delegittimazione. In quello che è il segmento più potente di un film che supera i 120 minuti, Bulli viene colpito al volto con un grande pezzo di legno bruciato. La maschera che dovrà indossare durante la degenza compone un’immagine di straziante alterità. Già in pasto ai media, prima che diventi nuovo oggetto di scherno nei giochi di sopraffazione dei coetanei, rivela la coesistenza indicibile tra distorsione grottesca e tenerezza, fragilità e limine alieno. Quando gli scarti improvvisi dal reale quotidiano, innescano una frizione evidente con il ronzio della morte che invade le case, gli ambienti degradati e il cemento “brutto” che occupa l’orizzonte, Berdreymi colpisce dritto e forte servendosi di un lessico essenziale, capace di far emergere la meraviglia da uno scenario, interiore ed esteriore, che mostra solo distruzione. La violenza è allora l’unica, temporanea possibilità per smuovere l’immobilità del tempo, un continuo avvicinarsi di corpi che si menano, si sputano addosso, si soffocano a vicenda, prima che il passaggio all’età adulta significhi sposare completamente l’irrazionalità selvaggia della sopraffazione.
Le due feste a cui i ragazzi partecipano, quella balorda con i maschi più grandi già assorbiti dalla bestialità del potere e l’altra con il Padre di Bulli appena uscito di galera, sono uno specchio possibile della trasformazione di cui parlavamo, la linea di demarcazione sottile tra l’espressione inevitabile della violenza e la sua adozione come modello di vita.

Se la linea patriarcale che ha spinto questi giovani sul baratro talvolta assume nel racconto caratteristiche didascalische, consente allo stesso tempo di non orientare lo sguardo in una direzione giudicante, accogliendo la violenza come un processo di trasformazione inceppato.

Più debole invece quando affida ai sogni di Addi la risoluzione dei conflitti interiori; alcuni vfx fuori posto e fuori luogo disinnescano quel rigore naturalmente visionario affidato ai volti e ai gesti irrisolti, gli unici capaci di raccontare angosce e incertezze.

Berdreymi è un buon film, non sempre convinto sulla strada da imboccare e sui modi che distinguono lo sguardo dalla superficie visuale. Per respiro e concezione avrebbe potuto essere pertinentemente inserito nella sezione Generation, invece di trovare collocazione in quella tradizionalmente di ricerca della Berlinale.

Beautiful Beings di Guðmundur Arnar Guðmundsson (Berdreymi – Islanda, 2022 – 123 min)
Interpreti: Birgir Dagur Bjarkason, Áskell Einar Pálmason, Viktor Benóný Benediktsson, Snorri Rafn Frímannsson, Aníta Briem
Sceneggiatura: Guðmundur Arnar Guðmundsson
Fotografia: Sturla Brandth Grøvlen
Montaggio: Andri Steinn Gudjónsson, Anders Skov

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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