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Bergers di Sophie Deraspe: recensione, TIFF 2024

Liberamente ispirato a D‘où viens-tu, berger ? il romanzo autobiografico di Mathyas Lefebure, il nuovo film di Sophie Deraspe racconta l'arcadia nel patto traumatico ma vitale tra natura e presenza umana. Percorso adulto di formazione dal superfluo delle città all'essenza della montagna. Visto al Toronto International Film Festival 2024

L’interesse di Sophie Deraspe per la storia personale e il romanzo semi-autobiografico scritto da Mathyas Lefebure è strettamente legato al cinema che la regista canadese ha realizzato fino a questo momento. Torna infatti dalle parti di Les Loups, il suo terzo lungometraggio, per la relazione dinamica e difficile tra individuo e natura, mantenendo al centro quella resistenza alle convenzioni del potere e della burocrazia che ha frequentato fino al precedente Antigone.

Ed è ancora una volta il paesaggio a guidare la mutazione dei personaggi nella ricerca di una propria identità, in quella terra di mezzo che risiede tra l’incudine del progresso e il martello della tradizione.
Mathyas abbandona la carriera canadese come pubblicitario e affronta le montagne della Provenza dal lato più ostile, quello dei pastori di pecore. Mentre cerca di mettersi in regola nel paese che lo accoglie, si scontra con gli intrichi burocratici, ma incontra Elise, una funzionaria poco convinta del suo ruolo.

La corrispondenza epistolare tra i due, sviluppata durante la prima esperienza montana di Mathyas con una modalità ottocentesca, divide il film in due sezioni. La prima legata alla trasfigurazione ideale che la penna dell’ex pubblicitario opera su quei luoghi e su una vita che ancora non riesce a comprendere. La seconda materializza il romanzo negli occhi di Elise, giunta a sorpresa da valle fino in montagna per toccare con mano le teorie di Mathyas sulla transumanza.

La forma letteraria si infrange e la brutalità della pastorizia collide con l’ecologismo immaginato da Elise e l’Arcadia inventata da Mathyas.
Il percorso della coppia comincia con un fallimento e un contrasto insanabile, per rinascere attraverso il radicamento ai luoghi e alla prassi della pastorizia.

Si modificano progressivamente i dati di una tradizione acquisita, rifiutando di fatto l’accelerazione della vita urbana, ma anche l’ostinazione dei pastori legati ad un’idea di profitto arcaica e talvolta distruttiva.
Nel passaggio da un pastore-padrone che forma Mathyas secondo una prospettiva predatoria inaccettabile, alla forma organizzata di una fattoria più grande, gestita da una donna interpretata da Guilaine Londez, la dimensione famigliare prende corpo, consentendo alla coppia di avvicinarsi con il tramite del paesaggio.

Deraspe costruisce quindi un percorso di formazione adulta seguendo i passi di Lefebure, ma cercando tra le pieghe di una parabola contemporanea quel passaggio dalla Pastorale alla crudeltà di una natura incontaminata e in lotta aperta con le regole umane di contenimento. Ecco che la trasformazione poetica passa necessariamente dall’irriducibilità del mito Arcadico a cui Mathyas ed Elise credono profondamente, proprio in virtù dei codici naturali collocati oltre le regole del mercato.

Ancora una volta i lupi, nemici da abbattere per questioni di profitto e sopravvivenza del gregge, diventano segno di una sofferenza connaturata al volto proteiforme della natura. Sempre più con-fusa ai cicli della montagna e totalmente distaccata dalla morfologia di città e villaggi, la coppia intraprende un viaggio solitario dove l’amore per le pecore comprende anche la presenza della morte. Se per l’idea di pastorizia immaginata dalla padrona dell’allevamento non è concepibile perdere una sola pecora, la difesa amorevole del gregge per Elise e Mathyas passa attraverso una diversa concezione dell’insieme naturale. Fare il pastore per loro è amare gli animali prima ancora di governarli, fino ad accettare di scomparire nell’equilibrio interno al paesaggio stesso. Lo dimostra la restituzione del bastone alla proprietaria dell’allevamento e la decisione di pernottare sui monti dopo il ritrovamento delle pecore massacrate.

In questa ideale cancellazione di ogni espressione capitalista, anche quella più basica, scompare la tecnologia, vera e propria eccedenza negativa, oggetto inservibile che allontana dalla comprensione del mondo.

L’occhio si spalanca allora sulle grandi distese, sui percorsi di transumanza che bloccano le forme minime di civiltà tecnologica presenti sulle strade montane, sulla comunione tra sguardo e fenomeno.
Anche quello più imprevisto e tragico, dalla violenta tempesta di fulmini all’istinto predatorio dei lupi, rientra nella prospettiva incantata di un cinema che recupera l’espansione dello spazio visivo, riducendo all’osso la drammaturgia.

Non è certo un cinema radicale quello di Deraspe, lo conferma il tentativo di rendere tangibile il crescendo emotivo con le musiche scritte da Philippe Brault, ma dimostra un amore sincero per gli spazi del paesaggio e la trasformazione dei propri personaggi, corpi che condividono con il mito la conciliazione tra il mostruoso e il sublime.

In particolare, l’interpretazione di Félix-Antoine Duval assimila bene il passaggio da città a montagna, incluse tutte le incertezze che conducono verso una trasformazione difficile e non negoziabile.

Specularmente, Solène Rigot vive il distacco con le consuetudini della vita urbana attraverso i residui di un ecologismo ideale, ma più della parola che sottolinea alcune appartenenze dichiarate, sono i gesti di rifiuto della violenza umana sulle varie forme con cui la natura si manifesta, a consentire alla regista canadese un lavoro specifico sulla commistione tra fragilità e forza. Quello di Emile è un personaggio che attraversa più di Mathyas i due stadi, riuscendo a incorporare e dar vita alle fantasie arcadiche di entrambi. L’unione dei loro corpi nudi sul cuore dei monti è prima immagine mentale dell’uomo, poi gesto di vicinanza e matrimonio con la natura che promana dalla donna.

Ciò che allora allontana Berger dalla dimensione edulcorata del racconto edificante è la convergenza del mito con la complessità dell’esperienza. Questa, come per la protagonista di Les signes vitaux, non tiene a distanza la morte, ma la accoglie come parte di un mistero altrimenti negato o dimenticato.

Bergers di Sophie Deraspe (Canada, Francia 2024 – 113 min)

Sceneggiatura: Sophie Deraspe & Mathyas Lefebure
Fotografia: Vincent Gonneville
Montaggio: Stéphane Lafleur
Musica: Philippe Brault

RASSEGNA PANORAMICA
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Michele Faggi è un videomaker e un Giornalista iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana. È un critico cinematografico regolarmente iscritto al SNCCI. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e new media. Produce audiovisivi
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