A un certo punto Francis B., novello Franz Biberkopf, torna nel centro di accoglienza dove ha trascorso i primi tempi a Berlino e tiene un discorso ad altri rifugiati, per convincerli a diventare spacciatori. Mostra i vestiti che indossa, vanta una donna tedesca, sventola quattrini. “Ich bin Deutschland”, afferma trionfante.
È questo l’apice, subito buttato al vento, dell’ambiziosissimo film di Qurbani, regista tedesco figlio di genitori afghani che al tema della dialettica tra Germania e rifugiati ha già dedicato il bellissimo Wir sind jung. Wir sind stark. (2014).
Stavolta le immagini non sono in bianco e nero, anzi la fotografia di Yoshi Heimrath ci tuffa in colori vividi tendenti al rosso, con un’attenzione per i neon che diventa cifra stilistica. Una bellezza tecnica che purtroppo non basta a giustificare tre ore – in cinque parti e un epilogo – di ritmo e approfondimento dei personaggi degni di una miniserie televisiva di quelle fiacche.
Il pitch, come si dice al giorno d’oggi, è notevole: ispirarsi a Döblin e alla sua storia criminale berlinese scegliendo come protagonista un rifugiato della Guinea Bissau. Peccato che al prologo astratto in mare aperto (un mare illuminato da torce rossastre) segua subito l’ambientazione berlinese, senza alcun indizio su come Francis sia arrivato fin lì. E non è l’unica incongruenza spaziale: poche scene dopo, il nostro eroe trasporta un collega operaio ferito fuori da un’industria siderurgica e lo depone, a piedi, sui bordi della fontana dirimpetto al municipio, a due passi da Alexanderplatz. Impossibile.
Ma i veri problemi non sono di verosimiglianza – sempre sacrificabile sull’altare della sospensione dell’incredulità – bensì di registro e sceneggiatura. Pur evitando confronti imbarazzanti col classico del 1931 di Phil Jutzi o col mammut di Fassbinder, il balenottero di Qurbani compie una scelta conservatrice, gioca cioè la carta del film berlinese “cool”, arricchito da rapine messe a segno con maschere al neon e ballo in costume che fa tanto anni Venti, senza tuttavia mostrare interesse circa lo spessore dei personaggi e l’articolazione della storia.
La prova del nove è che il confronto non regge soprattutto col film cool berlinese per eccellenza degli ultimi anni, Victoria (2015) di Sebastian Schipper .
Questo Berlin Alexanderplatz è poco più di un Tatort, tanto da prestarsi a uno spacchettamento televisivo da canale generalista.
Il Franz Biberkopf della tarda era Merkel grida al mondo “Ich bin Deutschland” al culmine della sua carriera criminale, ma questo messaggio dirompente si sfrangia in una retorica dell’assimilazione che puzza addirittura di Gastarbeiter.
Franz pecca e soffre, anche fisicamente, paga il suo debito con la giustizia e alla fine è fuori, vestito di tutto punto, con lo sguardo alla palla da discoteca della torre della televisione come per dire grazie, ce l’ho fatta, ora sono uno come gli altri. Deutschland, davvero.
Tra le macchiette stereotipate che affollano la pellicola spicca solo Reinhold, l’antagonista, che Albrecht Schuch riesce a caratterizzare con un solo gesto posturale: un braccio storto appoggiato al fianco, che rende il personaggio plasticamente sbilenco. Le tre ore passano per merito suo.
Qurbani sta pianificando una trilogia sui colori della bandiera tedesca. Un’impresa ancora più ambiziosa che va a scomodare Kieślowski. L’ultimo film sullo “stato della nazione” tedesca risale al 2009, il collettaneo Deutschland 09, senza dubbio meritevole di un aggiornamento.
Certo, Kieślowski s’ispirò al tricolore francese da polacco apolide per raccontare la natura umana. A Qurbani potrebbe mancare il giusto distacco, quello che ti fa dimenticare le regole.
In questo mansueto Berlin Alexanderplatz le regole del gioco sono rispettate dalla prima all’ultima.