domenica, Dicembre 22, 2024

Big Eyes di Tim Burton: la recensione

L'America di Big Eyes è anche quella di Lichtenstein e Oldenburg, Segal e Warhol, dove dai fumetti alla cartellonistica, dal cinema alla televisione, dagli oggetti di produzione industriale a quelli di artigianato sopravvivente, tutto stava diventando popular e kitch, risposta di massa ai modelli alienanti dell’arte di élite che aprì la strada ad un bel pezzo di storia dell’arte del secondo Novecento.

Che Margaret (Amy Adams) e Walter Keane (Christoph Waltz) abbiano percorso la parabola che spesso dal primo bacio romantico arriva in tribunale per la causa di divorzio è cosa che non rivestirebbe interesse alcuno se della loro storia non si fosse appropriata l’arte.
Non la loro, inesistente, benchè molto redditizia (la lunga teoria di fanciulle dagli occhi enormi che campeggiò per anni in assurdi poster nei tinelli americani ed europei è indimenticabile e rese molto bene alla coppia sul piano economico).

Per arte, o, meglio, pop art, intendiamo quella di Tim Burton che, con Big eyes, ha messo da parte il gotico per approdare ai poco favolosi anni cinquanta, in un’America color pastello dentro e fuori casa, dove il kitch regnava sovrano e le donne si pettinavano come Marilyn.
Dunque l’America del senatore  Mc Carthy, ma anche l’America di Lichtenstein e Oldenburg, Segal e Warhol, dove dai fumetti alla cartellonistica, dal cinema alla televisione, dagli oggetti di produzione industriale a quelli di artigianato sopravvivente, tutto stava diventando popular, dunque kitch, con ciò intendendo quella risposta di massa ai modelli alienanti dell’arte di élite che aprì la strada ad un bel pezzo di storia dell’arte del secondo Novecento. Non a caso Burton pone in esergo uno dei famosi aforismi corrosivi di Warhol sulla bellezza e l’influenza che ha la massa nel deciderne i canoni: “Se piace tanto alla gente vuol dire che un valore artistico ci dev’essere… se piace non può essere brutto”.

Il kitch, protagonista di una imagérie di massa che chiedeva risposte diverse dai modelli raffinati dell’arte colta, divenne in quei due decenni (’50/’60) segno di autenticità e mistificazione nello stesso tempo, ambito a pieno titolo di cultura artistica ma anche prodotto facilmente manipolabile. In quest’ottica la coppia Keane rappresenta il modello vivente di tale ambiguità, quasi un’incarnazione di quel fenomeno che schiere di studiosi hanno indagato in lungo e in largo.

Margaret è l’autrice dei quadri, ha una fantasia monotematica, e si direbbe ossessiva, che la porta a dipingere solo figure femminili, bambine dagli enormi occhi tondi (“come frittelle” dice qualcuno vedendoli). Strane figure, un po’ inquietanti e un po’ commoventi, che non passano inosservate ma che hanno bisogno del cosiddetto merchandising per diventare oggetto di consumo di massa. Poco importa che il grosso critico interpretato da Terence Stamp continui a stracciarsi le vesti nel denigrarli, quando la massa sarà indotta a scoprirli nulla potrà fermare il flusso di acquirenti. Ma bisogna aspettare Walter, Maggie è una donna, questo è il suo handycap.

L’arte delle donne non interessa, dunque non vende”, e su questo leit motiv Walter si insinua fino a prendere il posto della moglie, firmando i quadri che lei continua a produrre in serie in un laboratorio precluso a tutti, compresa la figlia. Un vero caso di plagio che Burton definisce “invasione degli ultracorpi affettiva”. L’ ottica in cui il regista si pone è singolare e l’avvertiamo nel trattare i due personaggi.

Margaret e Walter sono un caso abbastanza unico di dipendenza reciproca, “da una parte c’è il bisogno disperato di Walter di ottenere il successo e l’adorazione per un talento che non ha; dall’altra c’è l’auto-sacrificio di Margaret e una forza interiore che le permette di tacere controvoglia, finché sbotta”.
Troppo facile sarebbe liquidare la storia come un brutale caso di appropriazione indebita, le motivazioni sono molto più sottili e profonde, Burton ci sta dicendo qualcosa di sè e di tutti noi, in realtà, come ha raccontato in una recente intervista pubblicata da “Il Giornale”: “Questo è il bello del dare forma a diversi personaggi. Ti identifichi con tutti, anche se te ne vergogni. Ci sono aspetti di Margaret con cui mi riconosco, ma sfortunatamente mi identifico anche con alcuni aspetti di Walter, i peggiori. Nei grandi occhi della Keane rivedo il mio lato più oscuro.

Margaret ha una mano esercitata e veloce, dipinge di getto, quella è la sua visione del mondo, semplice, immediata, assolutamente priva di retroterra culturale, neanche lei sa ben spiegare perchè fa queste cose, si limita a dire che le sente dentro.

Margaret, inoltre, è una specie di embrione, di bozzolo ancora chiuso. E’ la tipica donna anni cinquanta che esiste solo se ha un marito accanto ma che però, pur piangendo fiumi di lacrime e parlando con vocina esile, riesce a scappare di casa ben due volte e divorziare. Protofemminista? No, solo una donna americana che non ce la fa più. Da noi sarebbe andata diversamente, almeno fino al ’74.

Walter è l’uomo di sempre, nulla che lo renda diverso da quello che usciva dalle caverne per andare a caccia di mammuth. Ora la caccia si sofferma sulle morbide curve di una pittrice di strada, appunto Maggie, che tira a campare con la figlioletta dopo il primo divorzio vendendo quadri e facendo ritratti ai passanti. Abile mistificatore, del tutto incapace di dipingere, costruisce una fortuna con i quadri della moglie fatti passare per suoi. Fino a quando durerà, cioè fino alla seconda fuga di Maggie e al divorzio, esito di un passaggio in tribunale che allora fece scalpore, con marito e moglie messi dal giudice davanti al cavalletto a dipingere per dirimere la questione del copyright, altrimenti irrisolvibile.

Nel ruolo di Walter, Christoph Waltz aderisce ad una scelta di regia che porta alle estreme conseguenze la sua forte espressività, già magnificamente collaudata con Tarantino e Polanski.
Qui però il personaggio facilmente deborda, si carica fino al macchiettismo in un’invadenza mimica e gestuale un tantino fastidiosa. Al contrario lei, Amy Adams, è una perfetta icona anni cinquanta, l’indimenticabile Peggy Dodd di The Master qui conferma tutta la sua bravura.

Quanto al clima che si respira,  il biopic tende a sfumare  nel favolistico qualche volta di troppo, ma ben presto la stilizzazione iperbolica, plebea, iperrealistica dei quadri di Margaret si rivela per quello che è, una copertura acquerellata di scenari storicamente collocabili nella gamma del nero.

Sono quelli della violenza dell’uomo sulla donna, della menzogna eretta a sistema, della corsa all’oro che contamina anche la ricerca artistica. Colpire l’immaginario collettivo fa vendere, vendere vuol dire potere, villona con piscina, editoria pronta a sfornare monografie patinate e gallerie con vernissage gremiti di “quelli che contano”. Chiedersi se ciò che è appeso alle pareti è qualcosa che vale può non essere necessario, l’arte vera farà molta fatica da allora in poi a districarsi dal mondo della contraffazione.

E poi c’è l’aspetto umano di tutta la vicenda, quello che forse a Burton interessa di più mettere a fuoco. Cos’è che convince Margaret a dire basta? Cosa le impone di smetterla con l’avallare il marito che la sfrutta da anni? Non un’ autonoma presa di coscienza, non una maturazione di istanze di libertà.

Sono i Testimoni di Geova la sua salvezza, quelle sorridenti creature che un bel giorno ti suonano alla porta e non c’è verso di sottrarsi. Nel loro irriducibile apostolato capace di superare ogni barriera qualche animo semplice come quello di Margaret riescono a convincerlo e, in questo caso, sarà una vera benedizione. Infatti la semplice Maggie si convincerà che le bugie non vanno dette, così almeno legge sul libriccino del perfetto testimone.

E così, un po’ con l’aiuto di Geova, un po’ per gli eccessi del marito a cui il successo sta dando alla testa al punto di credere per primo alle sue menzogne, Maggie troverà il coraggio e tornerà libera. Libera per cosa? Per continuare a dipingere i suoi orrendi quadri e firmarli, ovviamente sempre con lo stesso soggetto, fino all’attuale veneranda età di 87 anni.

Paola Di Giuseppe
Paola Di Giuseppe
Paola di Giuseppe ha compiuto studi classici e si occupa di cinema scrivendo per questo e altri siti on line.

ARTICOLI SIMILI

Voto

IN SINTESI

L'America di Big Eyes è anche quella di Lichtenstein e Oldenburg, Segal e Warhol, dove dai fumetti alla cartellonistica, dal cinema alla televisione, dagli oggetti di produzione industriale a quelli di artigianato sopravvivente, tutto stava diventando popular e kitch, risposta di massa ai modelli alienanti dell’arte di élite che aprì la strada ad un bel pezzo di storia dell’arte del secondo Novecento.

CINEMA UCRAINO

Cinema Ucrainospot_img

INDIE-EYE SU YOUTUBE

Indie-eye Su Youtubespot_img

FESTIVAL

ECONTENT AWARD 2015

spot_img
L'America di Big Eyes è anche quella di Lichtenstein e Oldenburg, Segal e Warhol, dove dai fumetti alla cartellonistica, dal cinema alla televisione, dagli oggetti di produzione industriale a quelli di artigianato sopravvivente, tutto stava diventando popular e kitch, risposta di massa ai modelli alienanti dell’arte di élite che aprì la strada ad un bel pezzo di storia dell’arte del secondo Novecento.Big Eyes di Tim Burton: la recensione