C’è qualcosa di inquietante in questo film scialbo e riciclato, ed è il meccanismo convenzionale della menzogna che genera l’equivoco come motore non solo di un modo decrepito di far commedia ma anche di un pensiero incancrenito sull’idea stessa di famiglia. Remake di un film franco svizzero di otto anni fa intitolato “Mon frère se marie” e diretto da Jean-Stéphane Bron, la seconda regia di Justin Zackham arriva a ben tredici anni di distanza da un esordio dimenticabile (Going Greek) depredando commedia classica, qualche spunto dal genio di Richard Curtis e gli ingredienti più superficialmente triviali della saga dei “Focker”, recentemente rinata a nuovi fasti grazie alle mani sante di Paul Weitz.
Ellie (Diane Keaton) e Don (Robert De Niro) sono una coppia divorziata che nei loro anni migliori sono riusciti a tirar su tre figli. De Niro è uno sculture che cerca di disintossicarsi dall’alcool e vive con Bebe (Susan Sarandon) la sua nuova compagna, ovvero quella che una volta era la migliore amica di Ellie. Il più giovane dei tre figli, Alejandro (Ben Barnes) è un Colombiano adottato che sta per sposarsi con una ragazza Irlandese di solide radici cattoliche (Amanda Seyfried) e che ha due genitori completamente fuori dalle righe, lui uno smargiasso in bancarotta e lei una sorta di maschera orrida con il volto devastato dalla chirurgia plastica. L’ostacolo imminente è la famiglia biologica di Alejandro, con la quale il ragazzo è rimasto in contatto tutti questi anni, è infatti previsto l’arrivo di Madonna (Patricia Rae), di nome e di fatto, considerate le sue idee sulla sacra unione del matrimonio. In un contesto così allargato e non convenzionale, durante i giorni che precedono il matrimonio, Bebe sarà allontanata per restituire alla famiglia originaria una facciata necessaria per non offendere i nuovi ospiti Colombiani. Ma oltre a Madonna arriva anche Nuria (Ana Ayora) la sorella biologica di Alejandro, capace di innescare una produzione di testosterone anche tra i più insensibili e che punta l’unico vergine della grande famiglia con intenzioni tutt’altro che spirituali.
Con queste premesse, i giochi che Zackham imbastisce sono combinazioni e varianti di una tessitura già chiara dove i personaggi sembrano inseriti in un nastro che li costringe a re-intepretare azioni, movimenti, sentimenti già visti come se si trattasse di una parodia della loro storia creativa prima ancora di quella sugli scampoli di un genere. Tutta la presunta scorrettezza che il film cerca di veicolare, dal cunnilinguus “interrotto” tra Don e Bebe passando per il vomito di Lyla (Katherine Heigl) durante un pranzo di famiglia, fino ad arrivare alla bella Nuria che masturba con una certa energia il povero Jared (Topher Grace) mentre gli altri aspettano la prima portata; si innesta tra gli ingranaggi di un dispositivo progettato in modo lineare, senza nessuna vera impennata, e sopratutto senza che la gioia o la sofferenza intacchino una superficie che non reagisce. Non è un caso che Ellie, forse il personaggio più odioso e didascalico di tutto il film, assuma quasi la posizione di un narratore onniscente, sguardo vigile su tutta la storia intima della famiglia, commenta esplicitamente ogni momento, snodo, ricordo con un’invadenza che assume il ruolo di una voce fuori campo che non lascia alcuno spazio ne all’immaginazione ne allo sguardo.
Se la commedia Americana è un territorio ancora molto fertile per giocare sullo slittamento di senso e su tutte le antropologie conosciute, compresa quella famigliare, il film di Zackham è la pietra tombale del genere; saturato da una parata di star è un piccolo teatrino esplicito e senza sfumature sulla necessità di trovare un equilibrio tra maschera e le esigenze di una comunità. Il grande matrimonio allora è quello che può conciliare tutti i contrasti senza l’ambiguità dei veri e propri equivoci, una saggezza posticcia che fa davvero paura.