C’è sempre stato tanto cinema nel cinema di Woody Allen. Raffinatissimi mockumentari (Zelig) e variazioni giallorosa (La maledizione dello scorpione di giada), citazioni bergmaniane (Interiors) e tentazioni felliniane (Stardust Memories), magie espressioniste (Ombre e Nebbia) e perversioni hollywoodiane (Celebrity). E poi registi in crisi di identità, attori fuori fuoco e spettatrici con il batticuore. Con Blue Jasmine, la tavolozza del regista newyorchese attinge direttamente a Un tram che si chiama desiderio, morboso capolavoro di Elia Kazan datato 1951.
Cambiano i luoghi e le atmosfere, e la partitura da cupa si fa brillante, la caduta della protagonista corre su un binario doppio, oscillante fra il tragico e il farsesco. Allen allenta il triangolo, ridimensionando l’erede del dirompente Stanley Kowalski (un indimenticabile Marlon Brando), trasformato in comprimario, in una storia dove sono le donne a spartirsi la scena. Parlare di remake sembrerebbe quasi azzardato, ma è nelle alterazioni e nei cambiamenti di tono, nelle estremizzazioni dei caratteri che si gioca lo scarto fra Allen e Kazan, tanto che alla fine il risultato è uno strano melange, una rivisitazione di un classico che si trasforma in cinema dal sapore puramente alleniano, una meditazione pungente e malinconica (crudele?), sulle illusioni che la vita costantemente ci riserva (e in cui colpevolmente ci rifugiamo) e sulle piccole menzogne che ci inventiamo per sopravvivere, quasi una prosecuzione ideale del recente Incontrerai l’uomo dei tuoi sogni.
Ora come allora Allen riempie lo schermo di personaggi (imbastendo uno dei migliori cast dell’ultima decade, Cate Blanchett in testa) e ci lascia con tante domande, in un finale aperto ma inevitabilmente votato al fallimento, lontanissimo dallo spirito zuccheroso di Midnight in Paris – dove il protagonista, ormai redento, torna sui propri passi in compagnia di Lea Seydoux, donna finalmente in carne ed ossa che riporta sulla terra il nostalgico flaneur/Owen Wilson – abitato da figurine zoppicanti che non riescono a reggersi sulle proprie gambe.
La tetra New Orleans dell’originale kazaniano si trasforma nell’assolata San Francisco, e a separare le due protagoniste ci sono gli Stati Uniti visti in orizzontale. Dopo una bancarotta economico-sentimentale (il marito, un gaudente Alec Baldwin, è stato arrestato per frodi finanziarie) e un tracollo psichico, la raffinata e vanitosa Jasmine è costretta ad abbandonare in tutta fretta il lussuoso appartamento affacciato su Park Avenue. Le speranza di un nuovo inizio sono tutte riposte nella sorella Ginger – “we are both adepted” scandisce a più riprese la puntigliosa Jasmine – che lavora in un negozio di alimentari, si veste come capita, sceglie immancabilmente l’uomo sbagliato (?) e alleva due marmocchi ciccioni e rumorosi.
Ce la farà Jasmine a costruirsi una nuova vita e, addirittura, a cercarsi un lavoro? La tormentata Blanche lascia il posto alla biondissima e superficiale Jasmine mentre Stella – la sorella buona e assennata del film di Kazan – diventa la buffa e scarmigliata Ginger. Affetto sincero in un caso, sostegno economico nell’altro: apparentemente agli antipodi le due sorelle cercano negli uomini che le circondano il segreto della felicità, finendo per restare entrambe deluse. Nel film di Allen i personaggi di contorno sono quasi caricaturali, dal marito fedifrago di Jasmine agli improbabili compagni di Ginger, dalle amiche-serpi al dentista che tenta invano di sedurre la protagonista. Se Kazan lasciava parzialmente nell’ombra il passato di Blanche, giocando su ricordi annebbiati da illusioni e da una strusciante follia, Allen riavvolge il nastro e fa emergere a ritroso la vita precedente di Jasmine, facendola rimbalzare a più riprese contro lo squallore del presente, con i frammenti del passato che emergono e si dissolvono come bolle pronte a scoppiare, mentre Blue Moon – la canzone – è il fil rouge che riannoda i ricordi della protagonista e ne sancisce l’oblio. Lo spettatore si ritrova così immerso nell’appannato flusso di coscienza di Jasmine, costretto suo malgrado ad adottare il punto di vista di un personaggio che resta irrimediabilmente antipatico, fino a una conclusione che grottescamente ripete, ribaltandolo, il punto di partenza.