venerdì, Novembre 15, 2024

Boris Godunov di Andrzej Żuławski: La Russia, La Scala e la comunità Ucraina

Nel 1989, il regista polacco di origini ucraine Andrzej Żuławski, realizzava la versione cinematografica del Boris Godunov, trasformando l'opera di Mussorgsky in un irriverente e potentissimo assalto contro il concetto di "anima russa". Ieri, la comunità Ucraina milanese, fuori dalla scena, chiedeva necessaria visibilità, in contrasto ad una prima scaligera che ha riattivato ambigue e rischiose connessioni tra arte e potere. Le risonanze con il film di Żuławski e la sua analisi transpolitica, sono ancora vive.

Mstislav Rostropovich, dopo aver visto il final cut del Boris Godunov diretto da Andrzej Żuławski, decise di ricorrere alle vie legali. Per il violoncellista e direttore d’orchestra russo, Il regista polacco di origini ucraine, esule in Francia, con i ripetuti e arbitrari tagli alle tre ore complessive dell’opera, si era macchiato di una colpa imperdonabile: aver insozzato l’anima russa.

La versione cinematografica dell’opera di Mussorgsky commissionata dalla Erato Films, fu realizzata in Yugoslavia nel 1989, sulla scia della registrazione discografica prodotta due anni prima dalla stessa etichetta con la National Symphony Orchestra e la direzione di Rostropovich. Con un cast completamente rivisto, ad eccezione di Ruggero Raimondi, Kenneth Riegel e Romuald Tesarowicz negli stessi ruoli della versione pubblicata su disco, Żuławski mette in abisso spazio teatrale e apparato realizzativo, sfondando continuamente la quarta parete e incorporando nei furibondi movimenti di macchina tutto l’impianto tecnico. Si compie quindi quell’intermedialità estetica e linguistica che attraversa in forma metadiscorsiva tutto il suo cinema e in particolare quello del periodo francese. Questo territorio liminale viene evidenziato nel Boris Godunov e con modalità molto simili in Le note bleue, il film biografico dedicato a Chopin e Georges Sand realizzato nel 1991 dove il dispositivo teatrale assume un ruolo centrale. Nell’esfoliazione del processo che coinvolge spettatore, attori e discorso filmico, Żuławski stratifica un testo già sottoposto sin dalle sue tormentate origini a continue revisioni, interpolazioni, tagli e riscritture.

Ciò che scandalizza Rostropovich è quindi la possibilità combinatoria intravista da Żuławski nelle numerose cornici di un’opera modificata nel tempo per occorrenze politiche. Possibilità che gli consente di stratificare la stessa storia politica della Russia in una galleria degli orrori legati alla gestione del potere che arriva fino a pochi mesi dal crollo del muro di Berino. Mentre il noto direttore d’orchestra perde la causa in tribunale, ma strappa alla produzione del film un disclaimer dove possa dissociarsi prima dei titoli di testa, il regista polacco forza il testo sovrapponendo potere zarista del 19/mo secolo, stalinismo e tardo impero sovietico.

La versione di partenza rielaborata dal regista polacco è quella revisionata del 1872 e andata in scena nel 1874 al teatro Mariinsky, ma Żuławski la sottopone ad una ulteriore trasformazione, inserendo correlazioni esplicite e radicali tra Boris e Stalin, per elaborare programmaticamente un assalto blasfemo di qualità surrealista all’integrità spirituale ortodossa del libretto, accentuando per esempio il valore sonoro della voce e dei rumori, rileggendo lo stesso sound design attraverso le distorsioni foniche e fonetiche del teatro di Grotowski.

Zulawski sovrappone la morte di Ivan il Terribile alla dittatura sovietica fino al 1953 e il regno di Boris Godunov al decennio del disgelo e della destalinizzazione, sabotato successivamente dalla revanche reazionaria. Nel tradimento del Principe Vasili Ivanovich Shuisky, si riferisce alla distruzione di alcune ipotesi riformiste nell’Europa dell’est.
Anche il doppio, topos Zulawskiano fin da “La terza parte del mondo”, viene utilizzato per demolire ogni certezza sulla divisione binaria tra bene e male. La strategia drammaturgica utilizzata è quella di far interpretare ad alcuni attori due personaggi diversi. È il caso di Grigorj, il falso Dimitri, a cui viene assegnata anche la parte dell’Innocente, colui che accuserà Boris di infanticidio in un momento apicale dell’opera, compiendo quindi un rovesciamento continuo del bene dentro al male. Questi doppi speculari che osservano l’abisso della propria coscienza, servono a Żuławski per vanificare qualsiasi spinta trascendente nell’ecologia del caos, dipingendo con il sangue la storia della Russia dal XVII secolo in poi.

In termini estetici il regista polacco sfrutta tutti gli elementi stranianti del suo cinema: violenza estrema, arditissime esplosioni cromatiche, infrazioni alla struttura del film-opera, equitemporalità storica, ibridazioni tra teatro e cinema di finzione e soprattutto una tensione irrisolta tra verità e rappresentazione, affrontata mediante distanza e moltiplicazione del punto di vista, anche attraverso la dinamica del paradosso.
L’inserimento della storia sovietica contemporanea nella struttura del Godunov, apre a Żuławski le porte per negare qualsiasi prospettiva assolutoria, nella rappresentazione metamorfica del potere.

Questa prospettiva metadimensionale, che spalanca verso lo spettatore il cuore nero di una nazione, non lascia evidentemente alcuno scampo all’occhio attonito di Rostropovich. Lo sguardo vitreo e allucinato di Żuławski è troppo acuminato per esser tollerato, perché esce dalla capsula temporale dell’evento, e lo proietta in una dimensione transpolitica che in quel momento risuonava con alcune istanze del 1989.

Gli stimoli di riflessione che ancora può suggerirci il film di Żuławski, hanno trovato una corrispondenza nei giorni e nelle ore precedenti alla prima scaligera del Boris Godunov, fuori dallo stesso apparato spettacolare. La comunità Ucraina milanese ha organizzato una protesta nonviolenta per chiedere come mai sull’opera diretta da Riccardo Chailly non sia stato attivato uno sguardo critico e organizzativo che consentisse di slegare la nuova rappresentazione del lavoro di Mussorgsky dalle consuetudini del potere Russo coevo.

La presenza di Ildar Abdrazakov e Anna Denisova nel cast, rientra in quella che Joseph Nye ha definito come dimensione immateriale del potere e del suo potenziale trasformativo. Potere dell’attrazione esercitato dall’arte che in questo caso può assumere una valenza tutt’altro che neutra.
Se Żuławski contraeva in modo estremo Mussorgsky verso Puškin, piegandoli entrambi con una lettura transtorica che si scagliava contro il potere a lui contemporaneo, la scelta di ricorrere ad interpreti che intrattengono con il regime di Putin rapporti funzionali fatti di riconoscimenti e agevolazioni, serve a nascondere gli orrori del presente e a ripulire, indirettamente, l’immagine della Federazione Russa.

Il procedimento mima la celebrazione della più ambigua realpolitik nel foyer di un teatro, dove la moltiplicazione dell’occhio ipermediale entra ed esce ovunque con un’immagine dissonante.
Da una parte la struttura teatrale più sussidiata d’Italia, con 30 milioni di contributi pubblici, il 16% del Fondo Unico dello Spettacolo destinato alla lirica, dall’altra una ripartizione classista della fruizione, che proprio il giorno della prima mostra il divario regalando al popolo la moltiplicazione documentale, tra social network, vip autoimmolati su instagram e dirette Rai, e ad un altro strato sociale posti di rilievo venduti tra gli 800 e i 3.000 Euro per ogni titolo di ingresso.

Mentre la Russia in Ucraina continua a colpire indiscriminatamente e illegalmente obiettivi civili e infrastrutture, l’immagine del potere mostra il volto peggiore, quello capace di autorigenerarsi attraverso operazioni di rebranding delle proprie eccellenze.

Dove sono quelle ucraine di eccellenze? Ha chiesto la comunità milanese di riferimento. Con una serie di necessità urgenti, diametralmente opposte alle attitudini che identificano la “cancel culture”, è bene ribadire che l’obiettivo non è certo Mussorgsky, davanti a La Scala si provava a diradare le ombre che si agitano sulla scena, per sostituire connivenze rischiose con una diversa produzione di senso.
Fare senso per gli ucraini significa esserci, definire l’appartenenza europea con il racconto di tradizioni, maestranze, talenti, cultura.

Quella russa non rischia di scomparire, chi rischia ogni giorno è un’intera comunità sottoposta a genocidio sistematico.

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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